Norma è una ragazza di buona famiglia, figlia di un professore che la educa a diventare indipendente, a realizzarsi attraverso la letteratura, come insegnante e soprattutto come scrittrice, poetessa e romanziera. Ma Norma si lascia coinvolgere da tutt’altro progetto e decide di sposarsi con il conte piemontese Felice Argentero che si innamora di lei al primo sguardo. Felice è vedovo, ha già un figlio e vede in Norma la realizzazione di una nuova vita. I due convolano a giuste nozze. Incomincia per loro una vita apparentemente serena, sebbene l’austera atmosfera piemontese, a tratti deprimente, fa sentire Norma come prigioniera. Il matrimonio va avanti senza particolari scossoni fino a quando arriva Angelica, la bambina tanto desiderata che nasce con gravi danni cerebrali. Da questo momento la vita di Norma diventa un percorso molto accidentato che solo la presenza di Medusa contribuisce a rendere meno doloroso.
Medusa è praticamente la protagonista di questo romanzo, è una bambina di otto anni che il nonno “affitta” per sette lire a Peru, un pedofilo che fa commercio di bambine povere.
“Al nonno il nuovo padrone aveva promesso che l’avrebbe riportata a casa-ai primi di settembre integra e in buona salute.- Ma tutti conoscevano Peru lo sdentato, che ogni autunno batteva la valle in cerca di bambine povere (e di famiglie in difficoltà): sapevano che non sarebbe andata così, Madlenin, prima femmina Belmondo, fu sacrificata alle esigenze familiari….”
Peru non è il custode dell’infanzia che “Sinemà” aveva creduto fosse, ma un vero demonio che stupra la piccola e la violenta anche nell’anima, facendola diventare il suo cagnolino ammaestrato. Con Medusa il rapporto si evolve in maniera diversa dal solito, sembra quasi che lui si innamori di lei, che non ne possa farne a meno. Medusa, ammaestra marmotte e mette su uno spettacolino di strada per guadagnarsi il pane quotidiano. Peru coltiva la speranza di trasferirsi a Parigi con lei e di condurre insieme una vita normale, ma si rende presto conto che la normalità per lui è altro, e quindi rinuncia al sogno e a Medusa, lasciandola nella disperazione profonda dell’abbandono. E torna ad esercitare il suo turpe commercio.
Madlenin Belmondo torna a vivere a Ferriere, tra lavori pesanti e umilianti e padroni esigenti e violenti. Ha visto il mondo lei, ha visto cose che i rozzi abitanti del paesino neanche immaginano,. Non può e non vuole accettare quella sorte disgraziata. Ricordando come la bella signora l’aveva accudita quel lontano giorno in cui Sinemà fece la proiezione in casa Argentero, decide di proporsi ai conti come cameriera, e riesce a farsi assumere. Da questo momento in poi comincia un altro “film” sull’intensa relazione tra Medusa e Norma, due facce della stessa medaglia, della stessa donna, fino all’epilogo finale.
La reazione di Felice a tutte le azioni della moglie, contrarie alla ”norma comune”, compreso il suo amore per Medusa, produce una tensione narrativa notevole. L’ escalation della violenza nel comportamento di un marito ferito, tradito, deluso, orgoglioso e cieco lascia esigui spiragli all’amore che cerca inutilmente di farsi spazio nell’oscurità dell’odio e del rancore.
Storia di un tentato uxoricidio
“Si sforzava di trovare una soluzione all’urgenza di quel “che fare” che s’ingrandiva nel suo cervello. Che fare, in concreto? Una volta c’erano i conventi dove far sparire le colpevoli, seppellite per sempre. Oggi neanche questo, non c’è più fede, crollano le vocazioni e le suore si svestono per seguire le seduzioni del mondo. Che fare? Qualunque cosa non bastava a cancellare quello che era accaduto, nemmeno la galera perpetua ci sarebbe riuscita. Che fare? Incurabile la sua ferita, malattia invisibile, mortale. Ho un tumore incurabile all’anima. Si gonfia, imputridisce, si decompone.”
“La pioggia e il sudore si mescolavano nella sua schiena, nuotava in un bagno di rancore. Come si sente un assassino, pensava – bene, si sente bene, finalmente. Tutto il dolore di questa ultima settimana, l’umiliazione, l’avvilimento, la vergogna, l’offesa dileguavano in un piacevole torpore. Norma giaceva morta sul letto con il suo gigantesco fazzoletto da naso, a scacchi, di semplice cotone, spartano – niente seta mia cara, niente pizzi – annodato intorno al collo. Guardarla morire. Solo così poteva cancellare il dolore, dolore che si annidava nella sua cassa toracica, trasformava il muscolo cardiaco in tumido tumore e i suoi novantaquattro chili di tendini e nervi in molle gelatina. Salì le scale lasciando scivolare la mano sulla ringhiera – contava i gradini, quindici fino al primo piano, i suoi passi rimbombavano sul legno cupi, sonori, piedi di piombo fuso. Andare coi piedi di piombo! La pendola rintoccava le dodici, l’ora dei morti. «La porti via?» chiese Emanuela. Non le rispose, la scala scricchiolava”
Felice verso l’abisso “annaspava, sguazzava nel canale di fango di lei, sabbie mobili della ragione, del dolore, del significato, questo è il punto nel quale nulla ha piú valore, questo è tutto ciò che avrò da lei, fango e l’abisso senza uscita, senza fine, stagno di incomprensione, palude, acquitrino degli affetti insensati del mondo, salvarmi, uscire, uscire, slargare il canale, fare della palude il mare, il mare, il male, farle male, farle male come quella notte, perché questo non finirà mai, non c’è via d’uscita e sto annegando, ucciderla nel suo fango di donna prima che l’onda mi sommerga, ci deve essere una fine, da qualche parte, il muro dove s’infrange la ragione, il porto; con le mani, a tentoni cercava il bastone d’avorio e lo trovò, ai piedi del letto, nel gomitolo di lenzuoli appallottolati, il pomo fresco al contatto con le sue dita bollenti, le mise una mano sulla bocca – il diamante a ferire le sue labbra, un anello d’oro purissimo, fede di grande valore, trentasei carati, ti ricordi, chérie? – lei non aveva capito, sembrava sollevata, sprezzante, come dicesse hai finito?, adesso sono libera: come ti sbagli, mia cara, l’elefante,”
Felice si sveglia dall’incubo“Sveglio, sveglio, com’è felice un uomo che si desta nel bel mezzo di un incubo spaventoso, come torna sulla terra e volentieri riconosce i luoghi della sua esistenza, le strade battute del suo presente – che bella serata, com’era riposato il suo cervello adesso, ma cos’è, pensava, leggero, perché la zavorra delle budella della carne dell’amore della vita l’aveva lasciata, rimossa con lo scroscio violento dell’acqua, risucchiata nel gorgo, abbandonata al pozzo nero della sua coscienza (o meglio, della sua incoscienza), cos’è, pensava, cos’è che ho sognato?”
Cara Melania
le tue PAROLE VERDI SULLO SCHERMO GRIGIO in appendice mi hanno svelato il percorso della tua creazione letteraria, attraverso il caleidoscopio di stili che hai adottato nel costruire il tuo romanzo: lettere, referti medici, perizie psichiatriche, poesie, pagine di storia, di cronaca nera e di cronaca parlamentare, descrizioni da manuale didattico di ambienti geografici, e tanto ancora.
“Io non avrei spacciato per vera la mia storia, ma l’avrei resa vera attraverso la finzione. Al mio scopo, avrei utilizzato ogni tipo di materiale documentario – falso naturalmente, nel senso che lo avrei scritto io stessa: articoli di giornale, diari, lettere, poesie, romanzi, perfino una perizia psichiatrica. Avrei utilizzato ogni tipo di scrittura. Finché alla fine la nozione stessa di vero e falso sarebbe trascolorata in una nuova realtà: quella del romanzo stesso. Il romanzo che avreste letto, Il bacio della Medusa, si sarebbe rivelato quello scritto dalla protagonista e nella finzione distrutto dal suo unico lettore: sareste stati voi, dunque, i suoi giudici. Voi avreste deciso se distruggerlo o lasciarlo circolare.”
Tu dici che nel tuo romanzo c’è tanta letteratura, ci sono tutte le tue letture, tutto il tuo bagaglio di ispirazioni. Ti ha ispirato anche L’arte della gioia di Goliarda Sapienza? Sai che in alcuni passaggi mi è sembrato di rivivere la storia di Modesta? Durante la lettura mi sono spesso posta la domanda che tu volevi che il lettore o la lettrice si ponessero: “Ma questa, è una storia vera? Sono vicende realmente accadute e rielaborate con tocco di scrittrice?” Le tue PAROLE VERDI mi hanno risposto: tutto inventato ma verosimile. L’esatto contrario del romanzo storico Manzoniano, che dalla realtà storica tira fuori storie e personaggi inventati. Hai dato all’ irrealtà una veste realistica. Ti sei incamminata lungo un percorso accidentato, come quello dell’alta montagna che descrivi, Era questo il tuo obiettivo? Ci sei riuscita.
Già dall’inizio avevo intuito la complessità e la ricchezza del tuo romanzo e ti confesso che è stato faticoso superare lo scoglio iniziale, proprio perché non riuscivo a individuarne il filo conduttore. Superato il pensiero orribile di mollare tutto, ho cominciato a cogliere il senso della storia e mi sono lasciata affascinare. Sono entrata nello spirito della caratterizzazione dei personaggi e soprattutto di Norma e di Medusa, che pian piano prendono forma attraverso quello che dicono, quello che pensano, quello che non dicono, quello che gli altri dicono di loro, quello che fanno insieme e separatamente, le relazioni che intrecciano con gli altri personaggi, il rapporto quasi animalesco, naturale e violento con l’ambiente in cui si muovono (Torino, la Valle Stura, la Francia del Sud) città, paesi, lande desolate, bianche e silenziose distese di neve, acque azzurre rinfrescanti.
Cos’era quel romanzo?
“Cos’era quel romanzo? Era un labirinto. Non credo somigliasse a niente, perché a niente, in effetti, cercava di somigliare. E insieme somigliava ai romanzi che avevo amato: i romanzi-mondo, che ti trascinano nella loro dimensione, ti intrappolano nel loro spazio-tempo, nel loro ritmo lento. Il filo che salvava dal labirinto i personaggi, l’autore e l’ipotetico lettore, era l’amore di Norma e Medusa.”
Il bacio della Medusa “è stato il mio cimento, e la mia distruzione, il mio specchio e la mia soglia. Perché sono io la Medusa col fagotto viola tra le braccia, sono la madre della Sirena e sono anche la Sirena. Così funzionano i libri. Sono schegge frantumate del presente, visioni e profezie del futuro, ricordi e detriti del passato, sono mondi, sono tutto…”
Il Bacio della Medusa (1996) è un romanzo corposo, ricco e articolato a tal punto che a tratti rischia di disorientare le lettrici e i lettori che, tuttavia, se decidono di andare avanti, non possono non cogliere tutta la bellezza che attraversa le pagine di questo lungo viaggio. Medusa ha una grandezza quasi epica, nutrita dal suo anelito indomito di libertà e indipendenza. Anche Norma è spinta da tale anelito, ma la pesantezza del fango e della neve e delle convenzioni sociali la tengono attaccata al terreno mettendo a rischio i suoi tentativi di ribellarsi. Bello, sono contenta di averlo letto, grazie Melania.
Assaggi
Sinemà è l’uomo della lanterna che regala sogni “Verso la fine degli anni Ottanta il padrone del circo aveva comprato la lanterna magica e Mundin cambiò di nuovo mestiere. Con la sua misteriosa scatola di legno proiettava ombre cinesi, scontri di fantasmi, marionette dipinte, singolari burattini che zompettavano senza ausilio di fili: la gente pagava qualche centesimo, sedeva nel buio sulle panche di legno ed era felice. Mundin regalava al suo pubblico una gioia istantanea, senza profondità e senza durata, che svaniva in fretta, risucchiata dalla confusione della vita, ma lui sapeva che il miracolo si ripeteva ogni volta: seduti nel buio gli spettatori abbandonavano odi, sventure, tristezze, si affidavano alle sue ombre e lui consentiva a tutti una sosta irresponsabile, una tregua di contagiosa leggerezza fra un’ora e l’altra della vita.”
Appare Medusa “farina granulosa che infestava la lanugine del suo capo era con ogni probabilità una covata d’uova di pidocchi, non piú disposti ad attendere prima di trasferirsi nella sua piú accogliente capigliatura. Forse neanche pidocchi: acari, pulci, chissà quali famelici parassiti si annidavano in quella peluria scura. E le unghie, linee nerissime, minacciose, e i piedi, peggio ancora, sfregiati da croste scarlatte, piaghe, geloni infiammati. «Come ti chiami?» chiese. «Belmondo Medusa», si sentí rispondere. Medusa. Una bambina, mio Dio, è una femmina – chissà perché le parve delitto ancora”
Peru e Medusa coppia felice “In realtà anche le coppie felici hanno una storia interessante (o forse, solo, una storia): ma occulta, invisibile. Il fiume del sentimento corrisposto s’inabissa nelle doline carsiche per proseguire la sua corsa sottoterra, nelle pieghe sotterranee di un quotidiano condiviso, nei piccoli gesti che non fanno altro che rivelare una cosa sola: la presenza tantalica, sisifica, dell’altro. Si sono moltiplicati, riuniti a comporre una figura nuova, teriomorfa, un corpo quattro teste: la loro identità nuova e le loro proiezioni reciproche. Madlenin divenuta ormai per sempre Medusa e Peru che pure costituivano per svariati motivi una coppia fuori dall’ordinario, non sfuggivano alla legge universale, che si disinteressa del sesso, dell’età, dell’epoca. La loro storia si smarrisce nei mille rivoli di giorni apparentemente identici…”
Norma occhi verdi come “Cercava di non incrociare i suoi occhi. Quel verde brillante, reso lucido dal vetro delle lenti, la faceva pensare a un grande silenzio, alle pozze tranquille che i fiumi del Mijú formano tra le canne, alla vernice fluida che un imbianchino rimestava nel secchio prima di stendere sul portone di una villa. Verde, verde, verde. Ma la signora la guardava e la guardava, Medusa annegò nei suoi occhi che erano verdi come le ipotesi, e disse di sí.”
Vivere tra le case alte ed eterne “Ho portato qui la mia Angelica perché i suoi pensieri divengano alti come gli alberi, liberi come gli alberi, diceva – vedere la montagna da piccoli, da subito, come te, come la tua gente, credo che faccia del bene, deve avere un effetto psicologicamente benefico crescere vicino a qualcosa di eterno, noi siamo cosí insignificanti, duriamo tanto poco, gli alberi possono vivere anche mille anni, le montagne milioni, le stelle miliardi, le cose grandi insegnano a fare a meno di quelle piccolissime, fanno capire quanto siano irrilevanti, e hanno una funzione liberatoria. Io credo sia per questo che le persone che vivono sulle montagne, o in prossimità delle cime, sappiano soffrire e sopportare il dolore e la sventura senza lamentarsi della loro sorte, e siano cosí refrattarie a sterili forme d’introspezione, non sei d’accordo?”
La notte in montagna “Dormono le grandi cime dei monti, e i dirupi, e le balze, e muti i letti dei torrenti, dormono gli animali che strisciano sopra la nera terra, e le fiere montane e le famiglie delle api, dormono i mostri giú nel fondo. Dorme Angelica, giú nel fondo. Dorme la Medusa, giú nel fondo. Notturno cosmico, e Norma è qui, sveglia, sola, nel Baraccone dei pellegrini che non credono, e camminano per andare. Dormono i mostri, giú nel fondo. Il cielo è lontano, e nessun miracolo verrà a svegliare Angelica, né la volontà, né la ragione, né l’amore. Sua figlia non si lascia ritrovare e non saprà di essere amata, e se neanche la musica saprà toccarla sarà sola, sola, laggiú, nel fondo. Questa era una notte di mancanze, di privazione, di slittamento. Di tangenze all’infinito. La conflagrazione dei corpi abbandona i suoi relitti nello spazio, nel tempo, nella distanza, e ritrovarsi è impossibile. Le stelle ruotano con la lentezza di periodi impensabili, le ellissi scivolano impercettibilmente, e non si ritorna mai nella stessa posizione. Sfiorò con le dita il viso di Medusa, ma già le nuvole stingevano in una polvere di perla. Un’alba nebbiosa restituiva a poco a poco i colori, l’orizzonte, le rocce, gli alberi, le montagne e gli immensi paesaggi che dovevano ispirare ad Angelica, o forse a lei, elevati pensieri. La notte era passata. Il momento – l’occasione che colma il tempo – era passato. Sant’Anna, Angelica, suo padre, la Medusa che per un attimo le era sembrata la cellula viva di un organismo nuovo, tutto perdeva realtà ed evidenza, e diventava la sconnessa visione di un sogno.”
La famiglia del politico “La fotografia edificante della famiglia del conte Argentero sulla quarta della “Stampa” durante la campagna elettorale del 1913. Si può fare mercimonio della famiglia? Felice disperatamente bisognoso di rinfrescare la sua immagine un po’ stantia: deve mostrarsi agli elettori come un imprenditore moderno, padre giovanile, marito affettuoso. L’esemplare incarnazione del politico centrista rassicurante l’elettorato piccoloborghese spaventato dalle spinte eversive dei diseredati: dio-patria-famiglia. I nostri figli: dare il buon esempio perché credano e obbediscano. Sorvegliare, punire, qualche frustata non guasta. Ciò che sono non lo interessa, solo ciò che saranno. Il loro futuro custodito nella sua agenda, con un lieve anticipo.”
Norma e la politica “Anche se si disinteressava di politica, e ai tempi in cui preparava il grande assalto a Montecitorio gli andava ripetendo, irritandolo oltremodo: «Detesto la politica. Sai perché? Non è un’arte né una scienza, mi pare quelle chiacchiere vuote che si fanno per levar fumo, in cui non si sa di cosa si parla né se ciò di cui si parla sia vero». Ma tanto, chérie non doveva votare.”
Fascinosa Medusa “«Gradite ancora del Porto, signora contessa?» disse Medusa, sorridendo. Un sorriso che poteva essere allo stesso modo, con la stessa probabilità, complice o assassino: un bacio o una pugnalata. Una carezza, forse – poiché versando dalla bottiglia le sfiorò le dita strette sul bicchiere. E già scivolava verso il buffet, sgomitando perentoria nella folla. Lunghi piedi da marinaio, messaggero di risse e d’amori furtivi, che schiacciavano il prato raso – fortunate le margherite carezzate dai suoi talloni. Medusa l’astuta: un istrice dagli aculei ritti. Una castagna spinosa e dura. Un camoscio dagli zoccoli crudeli e la casa nell’aguzza pietra delle cime. Una mora di luglio, acerba sui rovi e aspra sul palato. Uno scroscio di cascata, il mare in burrasca che si schianta sugli scogli.”
Medusa e Norma al cinema “Ma esiste anche un cinema per adulti – per fortuna, o per peccato. Andavano da sole, all’elegante Ambrosio, all’Itala, all’Impero e al Meridiana. Al Royal a vedere le sconvolgenti immagini del terremoto d’Abruzzo.” “Ascoltava il pianista strimpellare quattro noterelle d’accompagnamento – quella tenda chiusa, isolante, protettiva, quelle gocce di musica, quel silenzio ronzante carico d’attesa, quelle centinaia di pupille scintillanti nell’oscurità, gli occhi sgranati di Medusa, le sue ginocchia pungenti da adolescente magro che sfioravano il suo vestito, le sue unghie corte e spezzate da cameriera conficcate nel legno del bracciolo, il suo lungo naso, proiettato a fendere il buio, dritto verso il futuro, l’emozionavano profondamente. Il buio. La notte artificiale. La sala perdeva i connotati della realtà, non era piú una scatola di velluto satura di fiati, diventava non luogo, una zattera alla deriva con due sole superstiti alla catastrofe che aveva spopolato il mondo, un’isola sospesa tra il fuori – la primavera consueta di Torino profumata di fiori di tiglio – e il dentro: la primavera inconsueta di una strana Norma, timida e audace, confusa e spietatamente lucida”
Medusa in francese “«Sai che in francese méduser vuol dire ammaliare, affascinare, sbalordire?», diceva Norma sgocciolando la stilografica sul foglio. No, non lo sapeva. Le aveva anche parlato di un quadro dipinto da un certo Giulio Aristide Sartorio, che aveva visto “con il suo babbo” alla Biennale di Venezia, forse nel 1900. Si chiamava La Gorgone e gli Eroi.”
La spirale “Non c’è altro, c’è tutto, è tutto qui, è questo il punto dove tutto torna e si rivela, e il futuro nasce dalla liberazione del passato, la spirale, la spirale, è qui il segreto, un avanzare lento e tortuoso che non conosce la prigionia del cerchio, la sofferenza della linea chiusa, infiniti giri intorno a un punto, e l’avvolgente progressione della spirale ha per mèta insieme l’inizio e l’infinito, pensava Norma.”
Clessidra “Cuore segreto del mondo, il centro del centro, e loro erano arrivate nella strettoia della clessidra, dove tutto si fa intento, il tempo rallenta e indugia un istante prima di cadere. Ieri ombra, domani cenere, prima accumulo casuale di granelli, scansione lenta di giorni, settimane, anni, dopo dispersione veloce, caduta verticale, ripetizione di questo momento o perdita infinita. Ma nel centro del centro il tempo si sospende, cristallizza in un presente illimitato di una tale concentrazione che tutto ingloba. Visse un istante di sincronizzazione universale: tutto quel che accadeva in un unico punto del tempo le appartenne.”
La copertina
“Feci rilegare tre copie in tela grigio chiaro, e incollai sulla copertina una riproduzione del quadro di Arturo Noci, Nella cabina, dipinto nel 1911, che mi sembrava raffigurasse, con una precisione addirittura sconcertante, dal momento che l’avevo trovato solo dopo aver concluso il romanzo, la scena che chiude il capitolo La gioia. Il quadro di Noci raffigura due donne: una signora bionda, in sottoveste, con un elegante cappello, mentre si spoglia, e una ragazza del popolo, bruna, che invece si è già spogliata e ci si mostra, senza alcun imbarazzo, nuda.” Da Parole verdi sullo schermo grigio di Melania Mazzucco
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