In altre parole è la confessione intima di un amore profondo, cresciuto e maturato a dispetto dei tanti ostacoli incontrati durante il percorso. L’amore per un uomo? Per una donna? Per un bambino? Per un oggetto? Non esattamente, anche se tutti questi elementi ne fanno parte, in qualche modo.
La scrittrice “multilingue” Jhumpa Lahiri ci svela il suo amore per la lingua Italiana. Italiano “mon amour”!, dal momento in cui sboccia e durante il suo lento sviluppo, attraverso lo studio delle regole, la sperimentazione sul campo, le delusioni e i fraintendimenti, ma soprattutto attraverso il forte conflitto interiore tra le diverse anime linguistiche e culturali dell ‘”apprendente”: il Bengalese, lingua dei genitori, imparato soprattutto per far piacere alla mamma, l’Inglese/Americano prima lingua di una scrittrice americana, l’Italiano incontrato all’università e poi dilagato nella sua mente e nel suo cuore.
Ma non le basta studiarlo su qualsiasi fonte le capiti di farlo, o praticarlo con insegnanti madrelingua che vivono in America, Jhumpa vuole incontrare il suo amore sul suo “suolo natio”. Così l’Italia diventa per lei “terra di conquista linguistica e culturale”, prima per una settimana di turismo, poi luogo eletto di residenza per periodi molto più lunghi.
Vivere in Italia le permette di scoprire i modi di dire, le invenzioni contestuali, le sottigliezze e le raffinatezze profonde, i dialetti e soprattutto, i parlanti nativi in contesto! In Italia Juhmpa vive una continua meraviglia.
Ma nello stesso tempo il conflitto interiore si amplia, si radica giù nel profondo, tra alti e bassi, fino alla rigenerante consapevolezza che mai potrà arrivare alle vette della conoscenza assoluta. E cita famosi scrittori e scrittrici italiani alla cui fonte si abbevera. D’ altra parte tale traguardo è arduo, anche se si è madrelingua.
Uno spicchio di cielo e Verga
“Forse perché dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza. Mi chiedo quale sia il rapporto tra libertà e limitazioni. Mi chiedo come una prigione possa somigliare al paradiso. Mi viene in mente qualche riga di Verga che ho scoperto di recente: «Pensare che avrebbe potuto bastarmi quest’angolo di terra, uno spicchio di cielo, un vaso di fiori, per godere tutte le felicità del mondo, se non avessi provato la libertà e se non mi sentissi in cuore la febbre roditrice di tutte le gioie che son fuori di queste mura!» Chi parla è la protagonista di Storia di una capinera, una novizia di clausura che si sente intrappolata nel convento, che vagheggia la campagna, la luce, l’aria. Io, in questo momento, preferisco il recinto. Quando scrivo in italiano, mi basta quello spicchio di cielo.”
Triangolazioni e indipendenza
Le lingue di Jhumpa entrano spesso in conflitto: L’Inglese con il Bengalese, L’Inglese con l’Italiano, ma c’è un momento della sua vita di “language learner” in cui realizza che una triangolazione virtuosa è possibile, e porta verso l’indipendenza.
“I miei genitori volevano che io parlassi soltanto il bengalese con loro e con tutti i loro amici. Se parlavo inglese a casa mi rimproveravano. La parte di me che parlava inglese, che andava a scuola, che leggeva e scriveva, era un’altra persona.
Mi rendevo conto di dover parlare entrambe le lingue benissimo: l’una per compiacere i miei genitori, l’altra per sopravvivere all’America. Restavo sospesa, combattuta tra queste due lingue. L’andirivieni linguistico mi scompigliava; mi sembrava una contraddizione che non potevo risolvere[…]
Ho dovuto giostrarmi tra queste due lingue finché, a circa venticinque anni, non ho scoperto l’italiano. Non c’era alcun bisogno di imparare questa lingua. Nessuna pressione familiare, culturale, sociale. Nessuna necessità. L’arrivo dell’italiano, il terzo punto sul mio percorso linguistico, crea un triangolo. Crea una forma anziché una linea retta.
Un triangolo è una struttura complessa, una figura dinamica. Il terzo punto cambia la dinamica di questa vecchia coppia litigiosa. Io sono figlia di quei punti infelici, ma il terzo non nasce da loro. Nasce dal mio desiderio, dalla mia fatica. Nasce da me.
Credo che studiare l’italiano sia una fuga dal lungo scontro, nella mia vita, tra l’inglese e il bengalese. Un rifiuto sia della madre sia della matrigna. Un percorso indipendente.”
Come la capisco!
In altre parole mi è piaciuto molto anche perché ha toccato una corda vitale del mio essere. Le perplessità di Lahiri sono le stesse che ho sperimentato nel mio rapporto con l’Inglese, lingua scelta per professione e poi divenuta lingua del cuore e della comunicazione familiare.
Condivido la sensazione di fallimento ripetuto, di inadeguatezza, di sconforto di fronte all’autenticità dei parlanti nativi.
Condivido la tentazione di buttare tutto all’aria per tornare nella “zona di conforto” della propria lingua madre.
Condivido, tuttavia, anche la serenità che si raggiunge quando si matura la consapevolezza che si rimane comunque un apprendente straniero di una lingua non-madre. Ma non si getta la spugna e si affronta il percorso con maggiore umiltà e concretezza, lasciando spazio al piacere di apprendere, di leggere, di scrivere, di scoprire e capire i meccanismi che regolano quella lingua, e di cercare i punti in comune, quelli a cui ti puoi agganciare per comunicare in modo più efficace.
L’utilità delle imperfezioni
Condivido il piacere di scoprire le differenze e i falsi amici, che a volte possono mettere a rischio la comunicazione e i rapporti interpersonali.
Mi piace insomma l’atteggiamento di Jhumpa nel vivere il suo processo di apprendimento dell’Italiano: rischiare, rischiare, rischiare, anche di fare pessime figure, con consapevolezza. Noi siamo convinti che dagli errori si impara sempre, se si vuole.
“Grazie a loro, a Mantova (n.d.r. Festival della Letteratura), mi trovo finalmente dentro la lingua. Perché alla fine per imparare una lingua, per sentirsi legati a essa, bisogna avere un dialogo, per quanto infantile, per quanto imperfetto.”
Assaggi
Dovete assolutamente gustare questi assaggi, vi faranno venir voglia di mangiare tutto il menù/libro.
La metafora del lago- “Per conoscere una nuova lingua, per immergersi, si deve lasciare la sponda. Senza salvagente. Senza poter contare sulla terraferma.”
A Firenze il colpo di fulmine– “Sento una connessione insieme a un distacco. Una vicinanza insieme a una lontananza. Quello che provo è qualcosa di fisico, di inspiegabile. Suscita una smania indiscreta, assurda. Una tensione squisita. Un colpo di fulmine. Trascorro la settimana a Firenze a due passi dalla casa di Dante. Un giorno, vado a vedere la piccola chiesa, Santa Margherita dei Cerchi, dove si trova la tomba di Beatrice. L’amata, l’ispirazione del poeta, sempre irraggiungibile. Un amore inappagato, segnato dalla distanza, dal silenzio.”
Expat, lingue e straniamento– “Quando si vive in un Paese in cui la propria lingua è considerata straniera, si può provare un senso di straniamento continuo. Si parla una lingua segreta, ignota, priva di corrispondenze con l’ambiente. Una mancanza che crea una distanza dentro di sé.”
Quante cose non conosco!– “parole sconosciute mi ricordano che c’è tanto che non conosco in questo mondo.”
Le parole che non conosco- “Quando incontro una nuova parola viene il momento di decidere. Potrei fermarmi un attimo per impararla subito, potrei segnarla e andare avanti, oppure ignorarla. Come certi volti tra la gente che si vede ogni giorno per la strada, alcune parole, per qualche ragione, risaltano, quindi lasciano un’impressione su di me. Altre restano sullo sfondo, trascurabili.”
Sono una perenne apprendista dell’Italiano– “In italiano sono una lettrice più attiva, più coinvolta, anche se più inesperta. Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza. Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato. Leggere in un’altra lingua implica uno stato perpetuo di crescita, di possibilità. So che il mio lavoro, da apprendista, non finirà mai.”
Il cestino magico-“Alla fine della giornata il cestino è pesante, traboccante. Mi sento carica, arricchita, frizzante. Sembrano più preziose dei soldi, le mie parole. Mi sento una mendicante che scopre un mucchio d’oro, un sacco di gemme. Ma quando esco dal bosco, quando vedo il cestino, rimane appena una manciata di parole. La maggior parte sparisce. Evaporano nell’aria, colano come l’acqua tra le dita. Perché il cestino non è altro che la memoria, e la memoria mi tradisce, la memoria non regge.”
Un percorso affascinante imparare l’Italiano– “In italiano scrivo senza stile, in modo primitivo. Sono sempre in dubbio. Ho soltanto l’intenzione, insieme a una fede cieca ma sincera, di essere capita e di capire me stessa.”
La disciplina del diario– “Il diario mi fornisce la disciplina, l’abitudine di scrivere in italiano. Ma scrivere soltanto un diario equivale a rinchiudermi in casa, parlando con me stessa. Quello che vi esprimo resta una narrazione privata, interiore. A un certo punto, malgrado il rischio, voglio uscirne.”
Cos’è una parola?– “Cosa significa una parola? E una vita? Mi pare, alla fine, la stessa cosa. Come una parola può avere tante dimensioni, tante sfumature, una tale complessità, così una persona, una vita. La lingua è lo specchio, la metafora principale. Perché in fondo il significato di una parola, così come quello di una persona, è qualcosa di smisurato, di ineffabile.”
Vivere ai margini di una lingua– “In italiano mi manca una prospettiva completa. Mi manca la distanza che mi aiuterebbe. Ho solo la distanza che mi ostacola. Non è possibile vedere il paesaggio per intero. Conto su certe vie, certi modi per passare. Qualche percorso di cui ormai mi fido, da cui probabilmente dipendo troppo. Riconosco certe parole, certe costruzioni, come se fossero alberi familiari durante una passeggiata quotidiana. Ma scrivo, alla fine, dentro una trincea. Scrivo ai margini, così come vivo da sempre ai margini dei Paesi, delle culture. Una zona periferica in cui non è possibile che io mi senta radicata, ma dove ormai mi trovo a mio agio. L’unica zona a cui credo, in qualche modo, di appartenere. Posso costeggiare l’italiano, ma mi sfugge l’entroterra della lingua. Non vedo le vie segrete, gli strati celati. I livelli nascosti. La parte sotterranea-”
Imperfezione e identità– “Identifico con l’imperfetto, perché un senso d’imperfezione ha segnato la mia vita. Sto provando da sempre a migliorarmi, a correggermi, perché mi sono sempre sentita una persona difettosa. Per colpa della mia identità divisa, per colpa, forse, del mio carattere, mi considero una persona incompiuta, in qualche modo manchevole. Può darsi che ci sia una causa linguistica: la mancanza di una lingua con cui possa identificarmi. Da ragazzina, in America, provavo a parlare il bengalese alla perfezione, senza alcun accento straniero, per accontentare i miei genitori, soprattutto per sentirmi completamente figlia loro. Ma non era possibile. D’altro canto volevo essere considerata un’americana, ma nonostante parlassi quella lingua perfettamente, non era possibile neanche quello. Ero sospesa anziché radicata. Avevo due lati, entrambi imprecisi. L’ansia che provavo, e talvolta provo ancora, proviene da un senso di inadeguatezza, di essere una delusione.”
Care figlie, vi sentite così?– “Quando la lingua con cui ci si identifica è lontana, si fa di tutto per tenerla viva. Perché le parole riportano tutto: il luogo, la gente, la vita, le strade, la luce, il cielo, i fiori, i rumori. Quando si vive senza la propria lingua ci si sente senza peso e, allo stesso tempo, sovraccarichi. Si respira un altro tipo d’aria, a una diversa altitudine. Si è sempre consapevoli della differenza. In”
I muri del pregiudizio– “Sono una scrittrice: mi identifico a fondo con la lingua, lavoro con essa. Eppure il muro mi tiene a distanza, mi separa. Il muro è qualcosa di inevitabile. Mi circonda ovunque vada, per cui mi chiedo se forse il muro non sia io. Scrivo per rompere il muro, per esprimermi in modo puro. Quando scrivo non c’entra il mio aspetto, il mio nome. Vengo ascoltata senza essere vista, senza pregiudizi, senza filtro. Sono invisibile. Divento le mie parole, e le parole diventano me. Quando scrivo in italiano devo accettare un secondo muro, altissimo, ancora più ermetico: il muro della lingua in sé. Ma dal punto di vista creativo questo muro linguistico, per quanto esasperante, m’interessa, mi ispira.”
Imparare per analogia e contrasto– “L’inglese e l’italiano sembrano i punti più vicini. Avendo in comune molte parole di origine latina, condividono un certo territorio. Inutile dire che mi capita spesso in italiano di incontrare una parola che conosco già grazie all’equivalente inglese. Non posso negare che la mia comprensione dell’inglese mi aiuti. Ma può anche ingannarmi. Ogni tanto penso di capire il significato di una parola in italiano grazie alla radice latina, ma quando devo definirla mi sbaglio, e mi rendo conto di non aver imparato bene il significato neanche in inglese. La mia comprensione dell’italiano più cresce, più svela una debolezza anche in inglese. Il processo approfondisce la mia comprensione di entrambe le lingue, per cui la fuga mi sembra anche un ritorno.”
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