Qualcosa dobbiamo prendere sul serio, Don Gaetano ci insegna:
“fatemi prendere sul serio almeno il gioco della scopa, che è una mezz’arte religiosa. Sicuro, religiosa: la carta più importante è il 7, che è il numero della nostra novità di ebrei. Sono stati gli ebrei a inventare la settimana. Prima i calendari andavano a luna e a sole. Poi la nostra divinità ci ha fatto sapere che i giorni erano sei più uno. A santificare il numero 7 prima della scopa, siamo stati noi. Il mazzo contiene 40 carte, come gli anni passati nel deserto, tra l’uscita di Egitto e l’entrata nella terra promessa. E poi c’è lo spariglio, una variante della presa di carta su carta uguale. Si può prendere la somma di più carte. Questa è un’invenzione che non c’è in natura. La natura va per coppie, la scopa va per spariglio. Il cartaro ha interesse a conservare tutto apparigliato, l’avversario no. E’ una lotta tra l’ordine e il caos. Fatemi prendere sul serio il gioco della scopa”.
Che lingua cantata! Non puoi non leggere con nelle orecchie il Napoletano, anche se di dialetto stretto ce ne è ben poco…
Il giorno prima della felicità: brividi come quelli provati durante la narrazione filmata nel programma di Fazio (Che Tempo che fa 2008); narrazione liquida di un mare leggermente mosso e dolcemente salato. Ritmo lievemente incalzante. Brividi.
Non so nulla di Erri, e dunque mi piace pensare che sia una storia vera di cui lui è il protagonista. Usa un linguaggio antico e, nello stesso tempo, post moderno. Poesia delle onde bianche inferocite, gusto delle nuvole a forma di frittelle… E poi parole che fanno affiorare teneri ricordi della mia infanzia. Parole del lessico famigliare, paterno: la collottola, la cromatina e poi Totò e La Capa con i suoi strafalcioni.
Inguaribile nostalgica professoressa… Che bello l’inno alla scuola pubblica di Erri: trasuda piacere, nel sangue arricchito delle parole del professore, che dall’ossigeno dell’aria scendevano ricche, giù giù nelle vene…
“A scuola ascoltai a fondo le lezioni. Mi accorsi di come erano importanti le cose che imparavo. Era bello che un uomo le metteva davanti ad un’assemblea di giovani seduti, che avevano uno slancio nell’ascolto, nell’afferrare al volo. Bella un’aula in cui stare per conoscere. Bello l’ossigeno che si legava al sangue e che portava in fondo al corpo il sangue e le parole. Belli i nomi delle lune intorno a Giove, bello il grido di “mare, mare” dei greci alla fine della ritirata…Entrava luce in testa come ne entrava in aula. Fuori era un giorno lucente, uno di maggio finito nel mazzo di dicembre.”( p. 125)
E torna l’ Argentina, il mondo della salvezza. L’accenno umido ai fazzoletti sventolanti che salutano i passeggeri di terza classe in fuga, alla ricerca della felicità. E mi torna in mente il viaggio di papà, dopo la guerra, con la piccola eredità di mamma e gli ultimi risparmi di sua madre, investiti in questa avventura al buio. Lui, al ritorno non era poi così triste. Se l’era vissuta l’Argentina, senza troppo impegno. Lui, figlio unico viziato da una madre autoritaria e possessiva, non è riuscito a reggere il peso dell’emigrazione e allora, dopo un anno, ha speso gli ultimi soldi nell’acquisto del biglietto di ritorno, di una borsa di coccodrillo per mia madre e di una bambola automatica, Diana, alta come noi bambine con la quale la nonna-strega non ci faceva mai giocare…
E mi torna davanti agli occhi Frank, le sue canzoni, i suoi racconti che avrebbero dovuto convincere Eveline (uno dei più bei racconti nei Dubliners di James Joyce) a partire con lui verso il nuovo mondo, verso Buenos Aires. Ma Eveline non ce la fa, non parte proprio. E’ paralizzata dalla paura di lasciare il noto per l’ignoto…
E poi Chicco De Gregori e i suoi viaggiatori di terza classe “che si va in America” e poi e poi tanti altri …
Ed eccomi alla fine, solita enorme e umida commozione finale di fronte ad una testimonianza di calda umanità. L’umanità di Erri.
Descrizione del libro
(da: aNobii.com)
Don Gaetano è uomo tuttofare in un grande caseggiato della Napoli popolosa e selvaggia degli anni cinquanta: elettricista, muratore, portiere dei quotidiani inferni del vivere. Da lui impara il giovane chiamato “Smilzo”, un orfano formicolante di passioni silenziose. Don Gaetano sa leggere nel pensiero della gente e lo Smilzo lo sa, sa che nel buio o nel fuoco dei suoi sentimenti ci sono idee ed emozioni che arrivano nette alla mente del suo maestro e compagno. Scimmia dalle zampe magre, ha imparato a sfidare i compagni, le altezze dei muri, le grondaie, le finestre – a una finestra in particolare ha continuato a guardare, quella in cui, donna-bambina, è apparso un giorno il fantasma femminile. Un fantasma che torna più tardi a sfidare la memoria dei sensi, a postulare un amore impossibile. Lo Smilzo cresce attraverso i racconti di don Gaetano, cresce nella memoria di una Napoli (offesa dalla guerra e dall’occupazione) che si ribella – con una straordinaria capacità di riscatto – alla sua stessa indolenza morale. Lo Smilzo impara che l’esistenza è rito, carne, sfida, sangue. È così che l’uomo maturo e l’uomo giovane si dividono in silenzio il desiderio sessuale di una vedova, è così che l’uomo passa al giovane la lama che lo dovrà difendere un giorno dall’onore offeso, è così che la prova del sangue apre la strada a una nuova migranza che durerà il tempo necessario a essere uomo.
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