dove mi trovo

Dove mi trovo di Jhumpa Lahiri è il racconto di uno spaesamento.  I brevissimi capitoli in cui è suddiviso sono di fatto altrettantiluoghi” fisici, ad alto valore simbolico, fino a dare l’impressione che si tratti di frammenti di un diario scritto su prescrizione di un’ analista, dove Jhumpa registra ogni minima sensazione sollecitata da un luogo, un oggetto, una persona. Perché? Per capire meglio il suo mondo interiore, se stessa, i suoi rapporti con la madre e il padre, la sua identità, la sua ricerca del “luogo della vita”.

La storia della protagonista è un viaggio nella realtà che la accoglie e la respinge, allo stesso tempo;  nelle emozioni che questa le suscita; nei ricordi che evoca. È una lettura piacevole e partecipata, che riesce ad aiutare anche chi legge, presumibilmente una donna della stessa età della scrittrice, che sta percorrendo il suo stesso cammino. Si, siamo in viaggio con Jhumpa verso un’ ulteriore meta, un ulteriore luogo, un nuovo cambiamento che coincide, casualmente, con l’inizio di un nuovo anno.

“Nell’arco di un anno e nel susseguirsi delle stagioni, la donna arriverà a un «risveglio», in un giorno di mare e di sole pieno che le farà sentire con forza il calore della vita, del sangue.” dalla presentazione

Lo stile veloce, conciso, tagliente è rivelatore dell’esigenza di sintesi di chi decide di scrivere in una lingua non sua, ricorrendo all’operazione principe di una scrittura immediata ed efficace: scarnificare, ridurre all’essenziale, andare diritto al cuore del concetto. Anche per questo il libro mi piace.

E mi piace anche la scelta di non dare nome ai luoghi descritti, come fosse un “dove” universale che certamente qualcuno è in grado di individuare nelle sue coordinate geografiche, ma che molti riconoscono come un “proprio dove” in cui quelle stesse cose accadono.

Intervista di Giuseppe Fantasia (Huffington Post)

Scrive in italiano: perché? “Perché la vostra lingua, che ho imparato tardi, a quarant’anni, è uno spazio privato in cui mi sento più libera e alleggerita, un qualcosa di cui mia madre mi rimprovera ogni tanto, perché lei come mio padre, che conosce l’inglese e il bengalese e non l’italiano, non possono leggerlo, se non quando – spero – verrà tradotto”.

Tutto parte da un colpo di fulmine, con l’innamoramento, ma adesso mi trovo in una nuova fase del rapporto, sia con l’italiano come lingua che con Roma come città. Roma è una parte di me, anche quando torno o me ne vado. C’è un rapporto che esiste, ma mi fa pensare molto; esserci è tutto ed è difficile vivere in assenza, ma ci provo”.

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“Ad ogni mutamento di posto io provo una grande enorme tristezza. Non maggiore quando lascio un luogo cui si connettono dei ricordi o dei dolori e piaceri. È il mutamento stesso che m’agita come il liquido in un vaso che scosso s’intorbida.

ITALO SVEVO, Saggi e pagine sparse

Assaggi

In piscina- “In quest’ambiente umido, arrugginito, in cui noi donne ci vediamo nude e bagnate, in cui ci mostriamo le cicatrici ai seni e all’addome, i lividi sulla coscia, i nei sulla schiena, si parla della sfortuna. Ci si lamenta dei mariti, dei figli, dei genitori che invecchiano. Si svelano pensieri proibiti senza sentirsi in colpa.”

In cartoleria- “Frugo tra i quaderni colorati e metto alla prova l’inchiostro di varie penne su un pezzetto di carta calpestata da mille firme sconosciute, da sgorbi urgenti, nervosi. Chiedo cartucce di scorta per la stampante di casa e scatole diverse per mettere a posto le tracce cartacee – lettere, bollette, note – della mia esistenza. Anche quando non mi serve nulla di specifico mi fermo un attimo davanti alla vetrina ad ammirare l’allestimento perennemente festoso, abbellito di zaini, forbici, puntine, colla, scotch, e una marea di taccuini, con e senza righe, che mi piacerebbe riempire, perfino quelli specifici e poco ospitali per fare bilanci. Anche se non so disegnare avrei voglia di scegliermi un album per schizzi, rilegato a mano, di carta spessa, color crema.”

In sala d’attesa- “Nessuno fa compagnia a questa signora: nessuna badante, nessun amico, nessun marito. E temo che lei intuisca che anch’io non avrò nessuno accanto a me, tra vent’anni, quando mi troverò per un motivo o l’altro in una sala d’attesa come questa.”

In libreria-“Inevitabilmente mi imbatto nel mio ex compagno[..]Quando andavamo in vacanza insieme gli mancava sempre qualcosa di essenziale, le scarpe per camminare, una crema per proteggere la pelle, il taccuino per gli appunti. Dimenticava di mettere in valigia il maglione pesante, la camicia leggera. Aveva spesso la febbre. Ho visitato tante città piccole da sola mentre lui si riprendeva in albergo, a letto, mentre dormiva pallido, sudato, sotto la coperta. A casa gli preparavo il brodo, la borsa dell’acqua calda, scendevo in farmacia. Facevo l’infermiera, non mi dispiaceva. Aveva perso presto entrambi i genitori. Diceva: al mondo ho solo te. Cucinavo volentieri a casa sua, dedicavo tutta la mattina a fare la spesa, attraversavo la città per preparargli da mangiare. Mi ricordo dei vagabondaggi assurdi da un quartiere a un altro alla ricerca di un formaggio sfizioso, delle melanzane più lustre. Arrivavo da lui, apparecchiavo, si metteva a tavola e diceva: Non ce la farei a vivere senza la tua minestra, senza il tuo pollo arrosto. Credevo di essere il centro del suo mondo, aspettavo che mi chiedesse di sposarlo, lo davo per scontato.”

A cena- “A tavola siamo in sei. Dopo la minestra, smettono tutti di parlare, e continuiamo solo noi due. Stiamo discutendo di un film, secondo me un buon film, lo difendo. Ma lei insiste che l’attore, famoso, è pessimo. Non sono ubriaca ma non riesco a trattenermi, le dico: «Ma ti senti quando parli? Che cazzo dici?»”

In vacanza- “Mio padre, forse saggio, forse caparbio, riteneva che fosse meglio rilassarsi in casa senza fare le valigie, senza doversi ambientare per poco tempo in un luogo sconosciuto. Così salta la metà delle ferie, diceva. Quindi ogni anno nel periodo in cui non doveva lavorare, restava a casa. Non si vestiva fino a tardi, scendeva con calma in piazza a comprare i giornali e a salutare i vicini già in pensione radunati sulle panchine. Poi si sdraiava sul divano davanti a un ventilatore per leggere i giornali e ascoltare un po’ di musica. Non cercava le montagne, il mare, davanti agli spettacoli naturali non si emozionava. La pace, per lui, era restare dentro, fermo, in un posto abituale, l’unico suo eremo[…]Dopo cena resto nella mia stanza a guardare la tv. Rifletto parecchio sui miei genitori, e mi chiedo perché, in questo luogo ovattato, loro continuino a braccarmi. A chi dei due assomiglio? A lui, che sarebbe rimasto in camera, a leggere, come me? O a lei, che avrebbe voluto ballare? Le sarebbe piaciuto divertirsi con persone diverse da mio padre e da me. I suoi cari – amici, parenti, persone con cui sorrideva pienamente, davanti a cui non faceva il broncio – erano altri, sempre fuori casa. Io e mio padre: eravamo noi la gabbia.”

Da lui- “Ecco la morfologia privata di una famiglia, due persone che si innamorano e fanno due figli, un percorso tanto banale quanto singolare, unico. E capisco d’un fiato quanto siano un organismo ingegnoso, un insieme impenetrabile.”

Da mia madre-“Oggi siamo entrambe sole e so che sotto sotto le piacerebbe ricomporre quell’amalgama e così annientare la solitudine, sarebbe secondo lei la soluzione giusta per noi. Ma siccome tengo duro e mi rifiuto di abitare nella stessa città, la faccio soffrire. Se dicessi a mia madre che mi fa bene stare sola e sentirmi padrona del mio tempo e del mio spazio, nonostante il silenzio, nonostante le luci che non spengo quando esco di casa, e la radio pure, mi guarderebbe poco convinta, direbbe che la solitudine è una carenza e nient’altro. Non serve ragionarci su, non le quadrano le piccole soddisfazioni che riesco a ritagliarmi. Malgrado il suo attaccamento nei miei confronti non le interessa il mio punto di vista, ed è questo scarto che mi insegna la vera solitudine.”

A due passi- “Mentre cammino e patisco il distacco imminente da questo luogo, vedo con la coda dell’occhio un’altra persona, una donna che si muove a cinquanta metri di distanza, vestita praticamente in maniera identica a me: una gonna ampia e rossa, la stoffa sottilmente chiazzata. Cappotto di lana, nero anche quello, stivali alti, un cappello di lana che copre la testa. Anche lei porta la borsa sulla spalla destra. L’età resta un mistero, potrebbe avere la mia oppure quindici anni di più[…]Era una fatamorgana? No, l’avevo vista di sicuro, una mia variante che camminava allegra, determinata, a due passi da me”

Da nessuna parte– “Altro che ferma, sono sempre e soltanto in movimento, in attesa o di arrivare o di rientrare, oppure di andare via. Una piccola valigia ai piedi da fare, da disfare, la borsa in grembo, qualche soldo, un libro infilato lì dentro. Esiste un posto dove non siamo di passaggio? Disorientata, persa, sbalestrata, sballata, sbandata, scombussolata, smarrita, spaesata, spiantata, stranita: in questa parentela di termini mi ritrovo. Ecco la dimora, le parole che mi mettono al mondo.”

Un pensiero riguardo “J. Lahiri-DOVE MI TROVO, ovunque, da nessuna parte. Con me stessa.

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