A trent’anni di distanza dai due eventi che stravolsero il mondo civile Siciliano e Italiano: le stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, qualcuno potrebbe chiedersi: ma perché ricordare? Perché celebrare? Cosa è cambiato in questi tre decenni che dovrebbe indurci a considerare questa ricorrenza elemento propulsore di una riscossa sociale valida e duratura , contro la mafia e le mafie, contro i poteri criminali “dentro e fuori” il nostro sistema sociale?
È valsa la pena assistere al sacrificio di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, quello di Paolo Borsellino e di tutti i poliziotti che stavano loro accanto per proteggerli e condividere le loro vite, le loro azioni, i loro fallimenti e i loro successi ?
E vale la pena ripetere il rito delle celebrazioni, spesso “inquinato” da una dose eccessiva di retorica, falsità e ipocrisia?
Si, vale la pena, comunque.
Ritrovo alcuni dei miei dubbi nell’articolo di Marco Travaglio che apre l’inserto odierno al Fatto Quotidiano. Lo speciale a cura di Maddalena Oliva, LA STRAGE DI CAPACI-23.05.1992, TRENT’ANNI DOPO, con interventi di Roberto Scarpinato, Giuseppe Pipitone, Pif è una sintesi drammatica di quel periodo, in cui si evidenziano luci e ombre di un momento tragico per la vita del nostro paese.
Leggo con attenzione COSA CI DICE GIOVANNI FALCONE e mi ritrovo nell’ analisi del giornalista, fino alla conclusione che risponde in parte alle mie domande iniziali. Di fronte all’incapacità delle istituzioni in senso lato e al senso di impotenza e desolazione che spesso assale i cittadini
“…non resta che pungolare l’opinione pubblica. In tempi di elezioni, non ci resta che l’arma del voto: noi continueremo a informare chi vuole sapere, nella speranza che poi tutti compiano il proprio dovere.”

Devi effettuare l'accesso per postare un commento.