Madre e figlia tessono insieme la tela dei ricordi e dell’amore, attraverso conflittualità da sempre presenti nel loro rapporto. La malattia fa riemergere tali criticità e obbliga la figlia ad invertire i ruoli e a mettersi nei panni di chi deve accudire e amare, a prescindere.
Il percorso non è facile. Questo inaspettato e nuovo rapporto tra i due corpi è di difficile gestione. La figlia non ha mai ricevuto abbracci e carezze dalla sua mamma, contadina abruzzese dura e lavoratrice. Non c’era mai, era fuori a lavorare, a sporcarsi le mani. Tornata a casa di sera, proseguiva con le faccende domestiche tralasciate per lavorare nei campi. Nessuna smanceria era concessa. Il mondo maschilista e patriarcale non prevedeva carezze.
Ma le nostre madri ci amavano e si prendevano cura del nostro presente e del nostro futuro.
“studiate, dovete rendervi indipendenti con il vostro lavoro!”
Io non chiedevo di piu a mia madre, mi sembrava che già facesse abbastanza. E non ricordo baci e abbracci, ma la sua calda presenza mentre facevo i compiti in cucina e mi aiutava a scrivere i famosi pensierini che la maestra ci assegnava. Intanto lavorava e confezionava meravigliose camicie per clienti facoltosi ed eleganti. Confesso la mia parzialità “territoriale”. Le storie di Donatella mi appartengono, in molti modi. Condividiamo l’ Abruzzo terra d’origine e tante esperienze generazionali legate al territorio in cui siamo nate e cresciute.
Di Pietrantonio ci invita ad ascoltare il racconto della vita di Esperina Viola, quasi a voler mettere dei punti fermi non solo nell’esistenza di una madre, ma anche in quella di una figlia che ora ha bisogno di capire cosa sia l’amore materno e come relazionarsi con la nuova identità di una madre che lei non ha mai sentito vicina.
Nei momenti preziosi di lucidità dalla malattia incalzante, la madre invita la figlia a raccontare. La magia delle parole evoca ricordi e sentimenti, come fossero state scritte con l’ inchiostro simpatico.
“La sua memoria è adesso un manoscritto a inchiostro simpatico, lo sfoglio pagina per pagina e ci passo la fiamma vicino perché le si riveli. Mia madre a volte non vuole. Allora guardo i fogli da fuori, chiusi sul mistero della loro indisponibilità. Nascondono contenuti all’apparenza neutri che la malattia ha deciso di proteggere nell’indicibile. Non è casuale. Se avvicino certi nodi lei ha paura, si difende subito col non mi viene in mente e respinge il mio aiuto.”
Ciò che tiene desta l’attenzione di Esperina, nonostante frequenti momenti di assenza, è dunque il racconto della sua famiglia, a cominciare da Fioravante Viola suo padre. E dai ricordi che affiorano emergono anche per lei “buchi” affettivi e nodi irrisolti. La vita è un giro di giostra, tutti pensiamo che la nostra esperienza sia e sia stata unica, ma quando entriamo in relazione con il mondo degli altri ci rendiamo conto che così non è.
“Mia madre è un fiume. Erano un fiume i suoi capelli scuri e sottili che la corrente divideva ai lati del viso, onde a cascata sul seno, li pettinava la sera, dopo tutte le fatiche. Camminava e cantava, il fiume a fluttuare nel vento, ma solo qualche volta, di solito li raccoglieva in una crocchia. Intorno ai trent’anni tagliò i capelli per sempre, divennero insignificanti, pratici. Era un ruscello.
Era un ruscello. Ne scorreva uno non lontano da casa sua e nelle più serene notti d’estate apprezzava la cascatella dalla finestra aperta, mentre i cani stavano zitti. È un fiume di vecchi ricordi salvati, che ripete a tutti. Ci si afferra forte perché la sua storia non deflagri. Restano pochi, adesso. Mi occupo della supplenza, sono il suo scriba. Mia madre era un fiume di parole, ora di frasi stereotipate. Quanto cresce Giovanni, chi non si muove non mangia, che freddo stamattina. Al telefono chiede di continuo dove mi trovo. Sapermi al lavoro la rassicura. È stata la cifra della sua vita.
È un fiume in secca, la neve dei pioppi lo sorvola. L’ombra dei sassi cade sul letto bianco, crepato. Qua e là una pozza d’acqua ancora, ferma e densa, lambita dagli insetti. Fa odore di morte.”
Ed io ricordo il “fiume” di mia madre, i suoi capelli sciolti, rossi come quelli delle donne ritratte dai Preraffaeliti. Li portava sempre legati in una treccia, lucida e sontuosa, una acconciatura che accentuava i suoi meravigliosi occhi verdi, su un viso lentigginoso e bellissimo. Una delle pochissime volte che li ho visti sciolti in libertà era su una barella, appena uscita dalla sala operatoria del grande ospedale romano, ancora stordita dall’anestesia, dopo l’ intervento al seno.

Tanti echi in questa storia, echi di Fontamara e la co-gestione dell’acqua, bene prezioso; la fatica della terra, la boria e la prepotenza di padroni e mezzadri. E sento anche l’eco di una storia recente e Americana, Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, madre e figlia in una stanza d’ospedale sembrano ripercorrere la stessa strada di Esperia e di sua figlia, a ruoli invertiti, figlia malata e madre che l’assiste.
Oltre il filo conduttore dominante ci sono nel libro tanti piccoli spaccati sulla famiglia e sulla società di un piccolo paese di montagna nell’immediato dopoguerra. Si parla di emigrazione, di lunghe camminate a piedi per andare a scuola, di case da ristrutturare, di animali, di amori e dolori, del boom economico, dell’acquisto della prima macchina e tanto altro ancora. Insomma il contesto determina in modo chiaro la nascita e l’evoluzione dei rapporti sociali, del lavoro maschile e femminile, dei rapporti tra familiari e amici, tra madre e figlia, come nel caso delle nostre protagoniste.
Tutta la storia è in fondo una rincorsa verso il recupero di un’ identità condivisa, accettata e aperta a possibili ulteriori sviluppi.
“Tu sei Esperina Viola, mia madre. Come una viola sei nata il venticinque marzo 1942 , in una casa al confine tra i due piccoli comuni di Colledara e Tossicia. Sei figlia di una licenza militare, e anche qualcuna delle tue sorelle”
Mia madre è un fiume è una storia da leggere con serenità, una storia che parla delle devastazioni dell’Alzheimer, con sofferenza ma anche con equilibrio, suggerendo quasi una terapia familiare che vuole salvare il salvabile, accompagnando lo spegnimento graduale della memoria tra dolci ricordi, perdita di senso, momenti di sconforto e sempre più rari attimi di lucidità.
Assaggi
(Ricordo condiviso) Le nostre canzoni abruzzesi- “Esibivi al pubblico delle tue sorelle con alcune canzoni nostre, come Vola vola e Tutte le funtanelle se so’ seccate. Ricordi solo qualche verso di Vola vola. No, non è perché non hai più memoria, l’altra non ti piaceva, era troppo triste per i tuoi gusti. Se vuoi cerco il testo. Magari facciamo un duetto, però non sono brava”
Sanremo- “Impazzivi per il festival di Sanremo, ci campavi di rendita tutto l’anno.”
(Ricordo condiviso) Uccidere il maiale- “Il maiale deve morire d’inverno, quando il freddo inchioda le albe e taglia la faccia. Sono accadute gelate di cristallo e la luna è buona.” Quando avevo l’età di Giovanni era festa grande, giorno di grazia e di abbondanza. Partecipavano tutti i parenti, se non li invitavi si offendevano e se li invitavi ti si mangiavano un quarto di animale. Papà rotola su un letto di pepe tritato le lonze già tenute sotto sale e lavate con il vino. Ci passa le mani tutt’intorno per far aderire la polvere alla superficie. Starnutisce a raffica e si augura salute da solo. Fra poche settimane chi non possiede una scrofa andrà a comprare due rosei maialini dalla coda arricciata e comincerà un nuovo anno suino. Per quattro stagioni saranno allevati al sacrificio, perché un altro giorno così accada.”
Foto di migranti- “Questo invece è lo zio Umberto, giardiniere in Svizzera. Proprio buffo: un contadino avvezzo a tirar su piante commestibili per uomini e animali si aggirava leggiadro tra siepi e aiuole, intento a potare le rose. Una volta stava tagliando il prato di un condominio quando un violento starnuto gli fece schizzare la dentiera dentro una finestra aperta a piano terra. Nessuno in casa, gli toccò entrarci alla chetichella per recuperare la preziosa, tremando al pensiero dell’inflessibile polizia elvetica. L’attesa del ritorno era nell’aria per settimane, tu sorridevi sempre, persino il nonno era meno agro, i cani in allerta. Ed eccoli, la sera, stremati dal viaggio in treno, autobus”
Il sogno del migrante- “Dopo cena tutti accanto al fuoco, un po’ più loquaci del solito, con la luce alterna della fiamma sui volti segnati da stanchezze differenti. Scucivi pazientemente il malloppo dalla fodera interna della giacca. Erano i soldi per andare via, un giorno, comprare una bella campagna tutta d’un pezzo, senza pietre e senza ripe, da poter lavorare con il trattore e forse anche irrigare.”
La tristezza di chi resta- “Così le partenze dei padri significavano ogni volta addio, lutto, tradimento al cuore.”
Lettera dello zio dalla Svizzera- “Venerdì mi ha fatto male il dente del giudizio di sotto e la notte abbaiavo come un cane Sabato mattina un compagno mi ha portato da una dentista femmina che conosce lui e il dente non si voleva addormentare perché stava infiammato allora lei mi ha tirato un cazzotto per non farmi strillare e me la cacciato con uno strappone quella diavola Qua le femmine fanno quello che gli pare fumano le sigarette per la strada bevono la birra e rispondono agli uomini per di più portano i pantaloni Perciò è meglio se tu qua non ci vieni come avevamo detto che forse l’anno prossimo ci potevi venire e entrare a fare le pulizie all’ospedale dove ci conosco uno che ci poteva parlare con i capi”
Il multitasking femminile aiuta a dirottare il pensiero altrove- “Assisto, nell’inutilità. Immagino quello che l’aspetta e tremo per me. È sempre così, alla fine. Erigo le difese, alleno la mente. Mi sfido a ricordare la storia che Giovanni ha studiato ieri, nel frattempo cerco la pratica edilizia per l’ufficio tecnico del comune di Atri. Nel 486 a.C. muore Dario. Il figlio Serse tenta di nuovo la conquista della Grecia. Non trovo il progetto, dove l’avrò messo. Le poleis stringono un patto di alleanza. L’esercito persiano si dirige verso Atene.
Eccolo, la tirocinante mi ha lasciato tutto pronto sull’altro tavolo. Dopo alcuni giorni di aspri combattimenti al passo delle Termopili, i trecento spartani comandati dal re Leonida soccombono alla schiacciante superiorità numerica del nemico. Chiudo a chiave lo studio, il manico della borsa mi scivola dalla spalla sull’avambraccio e mi cade la cartella. Pagina successiva per le scale: le triremi greche erano lunghe quaranta metri e larghe cinque, avevano tre file di duecento rematori e potevano. “Oggi non basta la storia, ho paura. Mi serve un esercizio più stupido, meccanico.”
(Ricordo condiviso) La campanella del gelataio Domenico-se-ne-va- “Alle quattro in punto dei giovedì pomeriggio d’estate passava con la seicento multipla verdone il gelataio matto di Cellino Attanasio. Sentivamo l’altoparlante gracchiare la saltarella pizzicarella già a qualche curva di distanza da casa e correvamo, tutti i bambini del vicinato, ad aspettarlo sulla strada con gli spiccioli sudati in mano o, se ci mancavano, qualche uovo preso per tempo. Teneva il gelato in un contenitore di legno chiuso da un coperchio e avvolto da vecchie tovaglie, per conservare il freddo. Si sfidava a vendere la sua delizia artigianale dalle improbabili tinte pastello in un’ora al massimo. Oltre a cornetto o coppetta ci faceva scegliere i gusti per finta, che poi erano uguali perché da fragola a pistacchio cambiava solo il colorante. Ricordo un sapore di nulla, di ghiaccio filato, ma non ci rinunciavamo. A volte lo ha gradito anche il nonno Rocco, oggi mi ci va, diceva, una bella gelata. Tuo suocero, no, adesso non c’è più. E quando lo abbiamo sorpreso a mangiare la nutella di nascosto? A cucchiaiate, proprio. Usava quello da minestra, mica il cucchiaino da caffè.
(Ricordo condiviso)Il sonno del compagno Pietro- “Anche adesso, mentre piove di notte, resto un po’ sveglia ad ascoltare, che batte sulla strada, sul tetto di fronte, sui vetri se il vento l’accompagna da questa parte. Allora mi godo la casa e lui accanto, che dorme. Forse gli penetra acqua nei sogni. Entro nell’orbita del suo viso, sono testimone del respiro. Tra cartilagini deviate, mucose ipertrofiche, passaggi ostruiti, l’aria suona in cerca della via, s’interrompe, riprende, accelera, si calma. La sento, tifo per lei dove più fatica a entrare, resto con il fiato sospeso se si ferma, ricominciamo insieme Quanto lavora nella notte per restare nato. E io, nel suo sonno ignaro, gli rubo l’alito che espira. Questo strano prezioso compagno, che sempre posso perdere, solo un poco mi appartiene.
Mia madre era una farfalla- “Mia madre era una piccola farfalla dal corpo tozzo, l’esperia, con le ali corte e il volo a scatti. Sognavo di poter toccare la sua povera bellezza. È stata il principio di tutti i miei desideri, la madre di ogni solitudine.”
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