Succede spesso, quando esce un nuovo romanzo di cui non si è letta alcuna recensione, di “comprarne” l’autore. È successo anche con Il quaderno di Maya di Isabel Allende.
Il titolo ha aggiunto desiderio a desiderio. Il nome della protagonista evoca civiltà antiche e magiche, l’oggetto evoca momenti di intimità e solitudine creativa di fronte ai propri sentimenti e alle proprie esperienze. La copertina (Ana Juan 2011) cattura lo sguardo chiaro ed inquietante e le labbra “di Maya”, quasi in un sorriso ambiguo e innocente allo stesso tempo.
Le aspettative di lettura sono legate alle altre storie narrate da questa scrittrice. E ti aspetti allora gli ingredienti noti: magia, donne, paesaggi esotici, un pizzico di politica e di storia civile e una scelta di parole e connessioni coinvolgenti. Procedi, invece, con la lettura del libro in modo un po’ dubbioso perché ti sembra di non ritrovare subito quello che stai cercando.
Ti colpiscono altre cose, come l’alternanza delle Americhe di Isabel e Maya. La mescolanza di colori, di pelle, di paesaggi e di vita ti evoca sapienti scelte editoriali più che attenzione convinta alla multiculturalità.
Balza davanti agli occhi il classico canovaccio del telefilm americano di moda, dove trovi il Bianco, il Nero, l’Ispanico, l’Asiatico che, tutti insieme, lavorano nel distretto di polizia o nell’ufficio legale di turno… Tutto sembra molto politically and publishingly correct.
Emerge tuttavia l’anima vera di Isabelle Allende quando parla di donne: adolescenti, mature, vecchie, dei loro problemi, delle loro lotte strenue per affermare la propria dignità di persone. Donne malate in lotta con il cancro, rifiutate da compagni vigliacchi che non sanno gestire un rapporto nuovo, in qualche modo condizionato dalla malattia.
Donne, donne, donne. Un nuovo romanzo tra il noir e il romanzo di formazione? Si, visto con gli occhi una scrittrice donna che racconta donne, da Nini a Maya a Blanca, ad Azucena ed Edwige vittime di tragiche consuetudini familiari e sociali dure a morire. La madre Svedese, con il cognome di un animale… Otter la lontra e l’ abbandono. Doña Lucinda, artigiana diventata piccola, piccola nella cassa da morto. Bella l’idea delle “Streghe buone” in riunione nella grotta segreta o delle Vedove per Gesù che curano dalle dipendenza.
Maya vive nell’arco di pochi mesi tutto ciò che di malefico può accadere nella vita di una giovane femmina. La vita disordinata e tragica, violenta e disperata di Maya mi fa venire subito alla mente Lisbeth Salander di Stieg Larsson, anche nella peculiarità dei suoi tratti fisici. Maya è l’adolescente-giovane donna che nella scrittura cerca di “filtrare” la problematicità delle esperienze negative. Ma incontra anche l’amore la passione… C’è letteratura, cultura, poesia (nel romanzo compaiono grandi figure del passato culturale, come Leonardo, Galileo, Lawrence e le sue poesie d’amore, Darwin).
Strapieno di riferimenti anche geografici accattivanti: l’America di Berkeley, i boschi dell’Oregon, la corruzione di Las Vegas, la modernità rassicurante di Seattle, gli psichiatri statunitensi, gruppo sociale necessario alla vita dei moderni americani e altrettanto inutile a Chiloè Sud del Sud, il magico Cile con l’isola magica e i suoi riti turistici.
L’idea del quaderno ripropone l’ enfasi sulla scrittura “salvifica”, quella che aiuta a superare i momenti di solitudine e di depressione e di recupero dalle malattie del corpo e dell’anima.
La storia racconta momenti forti nella vita dei protagonisti e del Cile: il colpo di stato dell’ 11 settembre 1973(numero ricorrente nella storia delle catastrofi umanitarie). I luoghi della tortura, Villa Grimaldi. I ricordi/incubi, le rimozioni di Manuel. Manuel e Felipe Vidal prigionieri degli aguzzini …
“Il pretesto erano i depositi di armi [mi ricorda le Mass Destruction Weapons in IRAQ] che, si ipotizzava, il governo Allende avesse consegnato al popolo, ma visto che erano passati dei mesi e non si era trovato nulla, ornai nessuno credeva più all’esistenza degli immaginari arsenali […] Il terrore paralizzò la gente, fu il mezzo più efficace per imporre…”
Gli uomini della storia sono spesso portatori di violenza, eccetto il buon Popo, maestoso, elevato nel corpo e nell’immaginario di Maya. Il poliziotto corrotto, Joe Martin e il cinese, Brandon pazzoide. Quel Roy Fedgewick primo passo verso il degrado di Maya, il vecchio cileno ubriaco, violento padre-padrone. Uomini forti o fragili come, il disastrato Freddy, Felipe Vidal, Manuel e le sue fragilità, il padre di Maya, playboy incallito non privo di debolezze e precarietà, Lionel Schnake, ricco super conservatore dai “buoni” sentimenti…che non sa dire di no a sua figlia Blanca…La famiglia di psichiatri americani con Daniel, primo grande amore di Maya. Buoni, cattivi, deboli, forti. Il confine tra queste qualità appare spesso sfocato.
Alla fine del libro si apre uno squarcio di luce nel cielo e il cammino di Maya sembra popolarsi di buone prospettive di vita.
Isabel racconta il libro
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