La storia narrata è strettamente connessa alla “storia” del libro. Ed io voglio raccontarvele entrambe.
Taschinabili
Gli alberi di Alberto di Beniamino Joppolo, è pubblicato da una casa editrice indipendente di Messina, Il Pungitopo e fa parte della collezione dei “Taschinabili”. Portarsi un libretto nel taschino, magari sul cuore, è un’invenzione golosissima! Affascinante!
L’ho ricevuto come bomboniera di nozze, nella sua scatolina azzurra calda intima e piena di promesse. Gli sposi, due giovani professionisti Messinesi, hanno voluto donare agli ospiti una parte di sé e della loro amatissima terra, da cui sono partiti per studiare e lavorare in Veneto. Invece del solito oggettino da relegare nelle profondità della soffitta o di qualche vetrinetta, eccovi un “taschinabile” da leggere e godere per coltivare l’anima.
Sulle colline del Messinese, tra mare e terra, sullo sfondo di una magnifica villa, sede del gustosissimo pranzo di nozze, alla luce di un tramonto marino infuocato e sognante, su un lungo tavolo appoggiato ad una parete della casa, fanno bella mostra di sé decine di pacchetti, tutti uguali e misteriosi. Ne prendo uno a caso. Lo apro avidamente. Ancora non so cosa contenga, mi aspetto una bomboniera diversa dal solito, conoscendo gli sposi, ma ciò che trovo va oltre ogni mia aspettativa.
Trovo un libro piccolo piccolo, Gli alberi di Alberto di Beniamino Joppolo. Non lo conosco e non so nulla dell’autore, ma il titolo mi piace, evoca altre storie e un mondo naturale, sempre affascinante. Lo considero anche una buona occasione per conoscere Joppolo.
La storia inizia in medias res. È estate, un agosto caldo e affollato di rumorose cicale. Alberto è seduto al balcone della sua casa di campagna e si gode il silenzio che piomba finalmente quando le cicale decidono di stare zitte.
È solo, in compagnia dei suoi silenziosi sogni. Ma un telegramma spezza gioiosamente il silenzio del luogo e della sua anima: suo fratello, sua sorella, e i nipoti verranno in vacanza nella terra degli avi, a ricongiungersi con i ricordi d’infanzia. Alberto è strafelice e pronto ad accoglierli nel migliore dei modi.
Il giorno dell’arrivo fa una corsa liberatoria attraverso la sua campagna, salutando in modo insolitamente allegro chiunque incontri, abbracciando i suoi amati alberi: i noccioli, i ciliegi, i gelsi. Insomma, è incredibilmente felice di rompere la tanto amata solitudine.
Arrivano gli ospiti. Alberto cerca di abbinare con i corpi che ha di fronte il ricordo che ha di loro, trova differenze, riscontra piacevoli similitudini. La sorpresa più forte la riservano i due nipoti adolescenti Gabriella e Giovanni.
Il “povero, vecchio zio Alberto” diventa facile preda di una fascinazione speciale per questi due ragazzi e decide di lasciare loro in eredità il vecchio noce e il vecchio ciliegio piantati da lui stesso bambino. I due accettano con gratidutine e bontà, ringraziano e abbracciano lo zio per questo pensiero.
Il testamento di Alberto
“Di quello che è di vostra madre e di vostro padre decideranno essi, ma io sin da ora volgio dirvi cosa ho deciso per il mio. Alberto indicò un noce smilzo alto con folgie lunghe di un verde slavato:
-Quel noce l’ho piantato io.
Poi indicò un ciliegio ampio tozzo con folgie piccole acute spesse tutte tempestate di piccole macchie rosse.
-Ed anche quel ciliegio l’ho piantato io.
La sua voce cominciò ad emozionarsi: Il noce lo lascio a te, Gabriella, come mio ricordo, e il ciliegio a te, Giovanni. I due nipoti lo guardavano e gli sorridevano con bontà. Per cui egli sciolse il suo cuore nelle parole con una piena fiducia abbandonata:
“Io amo tutto quello che i vostri nonni mi hanno lasciato e volgio che anche voi amiate tutto…”ppgg 76-77
La realtà è testarda e feroce. Alberto, si trova inevitabilmnte a farci i conti e ad uscire finalmente dal suo mondo sospeso. Gli è servito allo scopo incontrare i suoi fratelli, ma soprattutto i suoi due giovanissimi nipoti in preda a risa e pulsioni adolescenziali.
Vengono dalla città Giovanni e Gabriella, da Torino lei e da Siracusa lui, hanno poca familiarità con i vecchi “padri alberi”. E Alberto lo scopre, mentre loro amoreggiando, commentano il gesto del “povero zio” . Ma chi pensa mai di di rinchiudersi qui per curare gli alberi dello zio!
È la svolta, narrativa e vitale. Alberto viene riportato bruscamente alla realtà e scopre di amare profondamente la sua terra aspra, i suoi generosi alberi, che lascerà invece a chi già li ama e li amerà sempre. E comincia anche a vedere la gente di campagna con occhi nuovi, li capisce di più e desidera ardentemente che rimangano proprio così come sono sempre stati, con tutti i loro difetti.. Questa è la loro bellezza.
Leone il fattore decide di andare per il mondo, ma alla fine…-
“ Cosa hai deciso Leone?
-Ho deciso di andarmene , don Alberto.
-Andartene?
– Sì, andarmene.
– E dove?
– Per il mondo
– Ah!
– Cosa vuole, don Alberto, una volta o l’altra bisogna pur decidersi a girare per il mondo, a tentare la fortuna…Qui non c’è speranza, don Alberto” p.13
È la filosofia che ispira questa storia a catturare il lettore. Il ritmo, il linguaggio, gli eventi sono meno coinvolgenti, pur presentando un efficace climax interno alla psicologia del protagonista. Alberto è un personaggio tutto “round”, che dopo un percorso di riflessione e sofferenza modifica il suo approccio alla vita. Rimane di questa lettura la spinta vitale dell’abbraccio appassionato agli alberi, un abbraccio fisico e psicologico, un abbraccio che apre alla speranza.
“Caro noce, caro nocciolo, caro ciliegio, cara quercia, caro castagno, caro ulivo, non preoccupatevi, non pensateci, chi non ama voi non ama le radici, chi non ama voi non ha viscere complete, manca delle viscere della linfa vegetale, è un menomato, è un deficiente, non pensateci…, E con la mente Alberto sentiva nell’abbraccio le tenere scorze di noce, di nocciolo, di ciliegio, di quercia, di castagno di ulivo, cedere al suo affetto in svenimenti di crepuscolo” p.86
Ancora un paio di assaggi…
Lo Stretto dei Dardanelli: Il gelso-casa di zio Emanuele- “Lo zio Emanuele possedeva un gelso il cui tronco si sviluppava metà orizzontalmente e metà verticalmente. Volle costruire una stalla vicino al gelso ma non volle sacrificare il gelso e allora lo fece passare dentro e certe volte lo usava come cuscino per dormire. Poi aggiunse una stanza alla stalla, poi un’altra, finché non costruì una casa a tre piani con per fondamento di fede il tronco di gelso, un casa rettangolare stretta,, “lo Stretto dei Dardanelli” piena di finestrelle proprio come una colombaia, sicché sembrava una casa che aveva la virtù di cambiare in colombo chiunque si mettesse ad abitarla. Ed Alberto ora tubava dal ridere mentre guardava quella casa e ancora incominciò a correre”p.44
Il Paradiso degli aranci- “ E Alberto andò oltre per viuzze pietrose e irregolari che di tanto in tanto avevano dei giardini chiusi da muri. Uno ce n’era di aranci i cui tronchi e le cui radici erano al muro aggrovigliati e pure avevano un disperato e intenso verde cupo di foglie e di grossi frutti acerbi dalla scorza forte grossa e rugosa. E Alberto pensò che se anche per le piante esistevano un inferno e un purgatorio e un paradiso per quegli aranci era certa,mente riservatop il paradiso in considerazione del disperato e continuo sforzo che facevano per aprirsi la vita con i denti rabbiosi delle radici tra calcinaccio e ciottoli” pp.gg 57-58
DAL TITOLO: “ un sensuale rapporto con la natura[…]in un linguaggio lirico che echeggia variamente G. Leopardi, G. D’Annunzio, D. Campana”. Dizionario Treccani
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