Molto interessante l’articolo di Marzio Breda sul Corriere della Sera del 17 Gennaio 2012. Viaggiare attraverso “Un secolo di Poesia” aiuta a ricostruirsi un’identità culturale e personale. L’articolo “I mille volti di Pessoa per cogliere la realtà” mi porta a recuperare il filo di un’esperienza intensa vissuta con Pessoa e Tabucchi a Lisbona.
Non mi soffermo sulla questione degli eteronimi e degli ortonimi, se non per sottolineare come molti di noi tendano ad essere una moltitudine e ad inseguire una sintesi spersonalizzante, per capire alla fine il proprio vero volto. (Ma chi ci riesce veramente?) E’ spesso un gioco perverso che rischia sì di farci perdere il senso della realtà e le coordinate utili a vivere il mondo che ci circonda ma che, nello stesso tempo, ci permette di vivere la vita da tante prospettive e di renderla così più ricca. “I’m large, I contain multitudes…” direbbe Whitman.
È significativo a riguardo il frammento 42 raccolto da Tabucchi nel libro di citazioni Il poeta è un fingitore
“A furia di fingere ci si ritrova a crederci”
Pensiero blasfemo: mi tornano in mente gli Avatar della rete. Quanto è di moda identificarsi con una maschera-rappresentazione di sè? Ma Pessoa è decisamente un’altra cosa.
“Sono stato educato dall’Immaginazione,
ho sempre viaggiato dandole la mano,
ho amato, ho odiato, ho parlato, ho pensato sempre
per questo,
e tutti i giorni hanno questa finestra davanti,
e tutte le ore sembrano mie in questa maniera
SM,I,34
3
Sfoglio il secondo volume di Una sola moltitudine. Collego le poesie che leggo al sogno, ai momenti intensi di malinconia, di nebbiosa solitudine sulle rive del Tago, in cui il poeta tuffava i suoi occhi e il suo pensiero. Troppo vasta la produzione di Pessoa per me, troppo dotta la prefazione di Tabucchi. La mia lettura, alla ricerca di emozioni epidermiche, mi ha portato a cogliere semplicemente quello che volevo provare nel momento in cui ho cominciato a leggere, quello di cui avevo bisogno per confermare i miei stati d’animo.
Mi sento in qualche modo vicino a Tabucchi quando parla di “furti”, che ha trascritto nel suo libro di citazioni da Pessoa. Egli ha raccolto frammenti privilegiati e amati della sua opera e ne ha fatto una piccola guida Baedecker, come lui la definisce, per il lettore italiano. Io, da molto più in basso, metto insieme quelle poche gocce che hanno placato la mia sete del momento.
Non ho mai amato le trasposizioni in italiano di poesie scritte in altre lingue. Come pretendere di riprodurre la musicalità peculiare che ciascuna lingua ha e che riproduce la vita, il paese e il sentire delle genti che parlano quella lingua? Come la voce sorridente di Maria Bethânia che declama Pessoa?
E tuttavia mi piace capire come il linguaggio dei sentimenti e dell’interiorità riesca ad andare oltre i codici e guidare la nostra attenzione sul contenuto. Allora provo a sognare con le traduzioni di Kathleen Norris (Alberto Caeiro, Il guardiano di greggi – XLIII) e di Antonio Tabucchi stesso (Ricardo Reis, Odi, Ogni cosa ha il suo tempo…)
Ricardo Reis, Odi, 30.7.1914
Ogni cosa ha il suo tempo.
Non fioriscono d’inverno gli albereti,
né di primavera
mostrano brinate i campi.
Alla notte che entra non appartiene Lidia,
lo stesso ardore che il giorno ci chiedeva.
Amiamo con più calma
La nostra incerta vita
Accanto al fuoco, stanchi non dell’opra,
ma perché l’ora è ora di stanchezze,
non alziamo la voce
sopra un segreto,
E casuali, siano interrotti
In nostri verbi di reminiscenza
(non ad altro ci serve
La nera partenza del sole).
A poco a poco il passato ricordiamo,
e le storie narrate nel passato,
ora due volte
storie, ci parlino
Dei fiori che nella nostra andata infanzia
Con altra coscienza coglievamo
E con un’altra specie
di sguardo dato al mondo.
E così, Lidia, stando al fuoco, come stanno
Gli dèi Lari, là nell’eternità,
come chi ripone un vestito
riponiamo il già stato
In questa irrequietezza che la calma
Porta alle vite nostre quando pensiamo solo
A quello che già fummo,
e c’è solo notte, fuori.
Alberto Caeiro, Il guardiano di greggi, XLIII 1011-1912
Meglio il volo dell’uccello che passa e non lascia traccia,
del passaggio dell’animale, che resta segnato per terra.
L’uccello passa ed è dimenticato, e così dev’essere.
L’animale, dove non è più, e perciò non serve a niente,
rivela di esserci stato, e ciò non serve a niente.
Il ricordo è un tradimento alla Natura,
perché le Natura di ieri non è Natura.
Ciò che è stato non è niente, e ricordare è non vedere.
Passa uccello, passa e insegnami a passare!
Lisbona
Lisbona respira con Pessoa e trasmette al viaggiatore un pò di quel respiro. Uno dei miei viaggi più belli è stato quello verso Lisbona, passando per Compostela. Ho incontrato persone a Lisbona che mi hanno sorpreso e reso felice.
Il vecchio crocierista americano che durante la sosta della grande nave si accoda a noi e ci invita
a seguirlo ad Alfama, sull’onda dei suoi ricordi di vita e della Lisbona di tanti anni prima;
Le cantanti di Fado, con la voce consumata, ma ancora penetrante, in una trattoria essenziale dove l’unico elemento di riscaldamento è il suono delle chitarre d’accompagnamento e le note malinconiche, struggenti e appassionate del fado.
Il portiere d’albergo, alto, forte, dal viso aperto, che, ad una semplice richiesta di informazioni su dove andare a pranzo in zona, ci invita ad unirci a lui per la sua pausa pranzo nella “sua trattoria preferita”, a mangiare pesce e cibi d’ altri tempi. E’ felice, orgoglioso, contento. Porta clienti alla trattoria? Ci può stare, ma traspare dai suoi occhi autentica attenzione;
All’ufficio postale, la bella signora portoghese-quasi guida-turistica ci consiglia di “andare sulla terrazza di quel bar, sì quello lì, all’ultimo piano di quel palazzo da dove si può ammirare il più bel paesaggio di Lisbona: il tramonto sul Tago!”, in un salotto accogliente al suono di una dolce musica jazz, sorseggiando una bella bevanda rinfrescante
Magie portoghesi che vivo, intensamente, nella cappella del chiostro del Monastero di San Gerolamo (Mosteiro dos Jerònimos) davanti alla tomba dove riposano le spoglie di Fernando Pessoa.
Prendimi tra le tue braccia, o notte eterna,
e chiamami tuo figlio.
SM, I, 175
Jackson Pollock
Forse non ha molto senso collocarlo qui, ma navigando tra ricerca, identità e sogni mi piace mostrarvi Portrait and a dream di Jackson Pollock: siamo tanti, siamo un io multiplo, siamo in viaggio continuo alla ricerca dell’unità con noi stessi, con il mondo, forse con un Dio. Delle due immagini, qual è il ritratto di un io conflittuale? Quale il sogno?
Un pensiero riguardo “Con TABUCCHI e PESSOA a spasso per Lisbona, inseguendo il sogno dell’identità.”
I commenti sono chiusi.