A.M. Ortese – L’IGUANA. Una fabula dai contorni filosofici e surreali, eppure contemporanea.

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Sirena, da Solidonius, XVIII sec., Paris,Bibliothèque de l’Arsenal, Ms. 973, f. 12.

L’Iguana di Anna Maria Ortese è una fabula, con qualche spunto di morality, di utopia e distopia, di romanzo di avventura e realistico.

Si svolge su un’isola immaginaria, Ocaña (e qui scattano  i richiami a Robinson Crusoe di Defoe, a La tempesta di  Shakespeare, al Typhoon  di Conrad) dove approda lo yatch di Don Carlo Ludovico Aleardo di Grees, dei Duchi di Estremadura-Aleardi, e conte di Milano, architetto  in missione “immobiliarista”, su commissione della madre.

Protagonista immaginifica della storia è L’Iguana Estrellita, che da stellina prediletta del marchese proprietario del castello, l’ambiguo  Mendes, si trasforma in essere derelitto, ultimo della terra, incarnazione del male puro. Il giovane conte ne rimane abbagliato  e fa di tutto per proteggerla e conquistarla. Aleardo vive sull’isola il suo sogno, il suo progetto, il suo viaggio verso Dio, verso la conoscenza di sé e del mondo  circostante, fino alle estreme conseguenze di un siffatto viaggio.

Tra i personaggi rappresentativi  di una società ipocrita e degenerata, spicca la famiglia Hopins, ricchi Americani in cerca di un  titolo nobiliare che dia dignità alla loro  ricchezza da parvenu, L’affare si conclude tra madre, padre e giovane donzella promessa sposa del marchese squattrinato,  disposto a barattare il suo titolo per un ritorno alla ricchezza perduta.

Ma è questa la storia vera? O è solo un’illusione? Cosa è vero? Cosa non lo è? I frequenti appelli che il narratore lancia al lettore tentano di sciogliere  i dubbi.

Il linguaggio di Ortese è molto  ricercato, forbito, filosofico, spesso difficile, che a tratti stanca  il lettore, pur non riuscendo  a dissuaderlo dall’andare avanti, perché di pari passo alle parole sceltissime, Ortese affianca una storia dolce e amara che richiede di essere seguita fino alla fine, fino ad una  conclusione proiettata verso la luce, nonostante il buio invadente.

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Ho difficoltà a trovare le parole giuste  per descrivere l’effetto di tale narrazione, ma qualcuno l’ha fatto in modo mirabile nell’ appendice al libro. Si tratta di Piero Citati, che dipinge con sapienti parole e immagini  il quadro  de L’Iguana e guida il lettore nei sentieri tortuosi della storia di Estrellita, metafora mirabile dell’essere umano. Citati individua  tutto quello che c’è da dire, da scoprire, da godere e da criticare nel romanzo di Ortese.

In appendice trovate anche un’altra piccola perla: L’intervista del poetaDario Bellezza all’autrice; le pone domande semplici e complici  a cui la scrittrice risponde altrettanto semplicemente, con chiarezza e lucidità strabilianti.


Assaggi

Il cielo di Siviglia– “Il tempo era buono, il mare calmo, la primavera spingeva fin sul mare il suo fiato caldo, e vi fu un momento, quando lasciata la Luisa alla foce del Rio Tinto, il Daddo si recò a Siviglia in cerca di quel gioielliere, che l’azzurro si sarebbe tagliato a fette, tanto era azzurro. E vi era una calma, un silenzio, un tal piacere di vivere!”

Il bene e il male-“affatto inutili, e anzi ti ringrazio di avermi stimato degno di ascoltarli. Ma verrà un giorno, vedrai, che tu stesso, di certi timori, farai oggetto di risa; e ciò sarà quando, uscito in qualche modo da tanta solitudine, avrai constatato che il mondo, quando non è malato, è buono, e se non lo è, essendo soltanto malato, ha bisogno, per guarire, di tutto il nostro intelligente amore». La mano ch’era nella sua, a queste parole, si abbandonò un attimo, con una fiducia che sconvolse il visitatore, mentre quegli occhi lo fissavano con l’incanto con cui il neonato vede arrivare la madre sua, che credeva perduta, e trema tra riso e pianto. «Fosse così!» mormorò «fosse come tu dici, che il male non esiste!». «Non personalizzato, per lo meno, non intenzionale; ma solo come un momento del divenire, il momento, per così dire, pratico».

Una lampada a pila…un racconto antico e fiabesco in un tempo moderno?– “Una lampada a pila, che aveva tolto al mattino a bordo della Luisa, mandava avanti a lui una luce saltellante… una luce che pareva, imbarazzata, volersi ritrarre, chiedere protezione al suo proprietario.”

Education– “Infine, voleva domandare a Estrellita se, oltre i mestieri di casa, sapeva fare qualcosa d’altro…, se aveva studiato. Ipotesi assurda! Ma faceva parte del suo interessamento per una vita così disgraziata, e della coscienza un po’ dolorosa che, nella capitale lombarda, gli esseri rudimentali non usufruivano più delle medesime simpatie e agevolazioni dei rampolli altolocati, mentre il conte desiderava per la sua protetta la situazione migliore.”

L’iguanuccia Estrellita gioca a “Campana”– “«La settimana». Gioco ingenuo, e mille volte più ingenuo, se non bizzarro, se giocato durante la notte da una creatura come l’Iguana, che egli aveva già visto patire e sospirare e contare denari, con tutta la soffocazione e il tremendo silenzio di un’adulta. Quasi la notte, liberandola dalla presenza degli esseri atroci che la circondavano, svegliasse in qualche modo un suo patrimonio di felicità, l’Iguana, con piccoli saltelli, passava leggermente da un quadrato all’altro. Alcune di quelle galline, sveglie e indispettite, la fissavano dai loro posatoi; e l’Iguana, al modo di tutti i fanciulli del mondo, sembrava non farvi assolutamente caso, e quando volgeva il muso sottile dalla parte del conte, il giovane poteva vedere che vi era là, in mezzo alle grinze di ansietà e terrore lasciatele dalla quotidiana sua vita, non so che luce di grazia, di gioia. Che non si spense neppure allorché il conte, accendendo la sua pipa, e con un sorriso intimidito per quanto gradevole, si accostò al pollaio.”

Appelli al lettore. Lotta tra il bene e il male– “Ma hai mai pensato, Lettore, quale può essere lo strazio della Perversità e Malvagità medesima, impossibilitata, per ragioni diremo matematiche, a lottare con sé, fuggire da sé, e che sempre, il giorno e la notte, deve sopportare l’orrore della propria disperata presenza, essendo – questa presenza – se medesima?”

Abitudine all’orrore-“Non vi è, infatti, orrore che, essendovi nati dentro, e avendone, per così dire, bevuto il latte, non si trasformi col tempo in abitudine e rassegnata indifferenza, cioè a dire in una sorta di degradata felicità, e tuttavia ancora felicità.”

Inferno caldo o freddo?– “Si dice che l’Inferno sia calore, un calderone di pece, a probabilmente milioni di gradi sopra lo zero, ma in realtà il segno dell’Inferno è nel meno, invece che nel più, è in un freddo, Lettore, davvero assai orribile. Non solo vi è freddo, ma anche solitudine: nessuno ti parla più, e tu non riesci a parlare con alcuno. La tua bocca è murata. Questo è l’Inferno. “

Il conte Aleardo scende nella cantina dopo la scena umiliante per l’ iguana-“Andò, aiutato da quel verde raggio, fino all’angolo dov’era rincantucciata la Iguana, e vide che la creatura, piegata in due contro il muro, con una zampina sul capo, stava immobile; e il suo timore che piangesse scomparve quando si accorse che il «grr-grr» che faceva con la gola non era pianto, bensì il respiro nasale dei fanciulli che hanno pianto, e ora dormono. Un occhietto era chiuso; l’altro, semiaperto e fisso, come rimproverasse qualcuno. Ma era una semplice illusione ottica del conte, perché più non capiva.”

Aleardo, una nuvola piena d’acqua-“Ciò che infine lo rendeva, anche in mezzo alle compagnie letterarie di Milano, così sinceramente devoto e insieme distante, era proprio quella sua certezza di essere un nulla, una inabitata coscienza, una nuvola piena d’acqua, che sarebbe presto sparita.”

Quando Iguanuccia era la stellina del marchese– “Il marchese passeggia con lei sulla spiaggia, dandole il braccio, proprio come a una minuscola damina, e avvicina la testa al suo sottile muso, chiamandola più volte «stellina mia». L’Iguanuccia è fuori di sé dall’orgoglio e la soddisfazione. Non si è mai guardata in uno specchio, da quando è nata, ma non importa: sa di essere bella, ora, bellissima, e, come ogni figlia dell’uomo, ne è beata. Ogni cosa che lei fa, ogni passo, ogni occhiata, ogni inconsapevole attuccio, sembra gradito al marchese più della primavera medesima o di una corona regale. I fratelli, in quel tempo, non esistono; esiste solo il marchese, cioè il suo babbo, o qualcosa di più, che nella sua stupidità assoluta l’Iguanuccia non riesce a catalogare, ma si chiama dolcezza, e speranza di trasformarsi per sempre in una elegante stellina. Ciò perché il marchese le ha promesso che un giorno, quando sarà cresciuta, la porterà in paradiso, un posto assai grande, di là dal mare, dove la presenterà come sua sposa, e tutti la onoreranno, e vi sarà per lei «una felicità che nemmeno te la immagini».”

Ode al marchese, babbo dei babbi-“Solo, ogni suo passo, sguardo, voce, anche se dorme, è una lode, un appassionato rendimento di grazie al babbo dei babbi, al marchese dei marchesi: «Tu, che mi hai fatto nascere…». «Per il quale sono viva…». «Che sei così grazioso e sapiente…». «Che mi porterai in paradiso, domani…». «E io vedrò la tua gloria…». «Io, la tua servettina…».”

Quando Iguanuccia diventa solo una questione sindacale– “«Le… le hai parlato?». «Sì…». «Capisco» disse il marchese facendosi pensieroso; e soggiunse: «C’è un equivoco, e posso chiarirtelo in due parole; dipende da nient’altro che un’erronea inerpretazione della funzione dei sindacati. Come tu sai, essi stabiliscono il versamento di una certa tassa a favore dei servi, per la loro vecchiaia, e, in mancanza di ciò, un semplice aumento del salario. Essa, in qualche modo, ne aveva sentito parlare, e chiese, se non quella previdenza, un aumento. Non aveva considerato che mancavale la iscrizione. Così, finora, non è stato possibile accordarle niente. Tutto qui».”

Appello al lettore a ritmo molto sostenuto–  “Se in fondo al pozzo o in quel freddo e allucinato tribunale, noi, Lettore, se pure ciò ti parrà strano, non possiamo dirti. Ma tu, se di questi continui passaggi da un luogo all’altro, e mutamenti di scena, e spezzati dialoghi, e rapido inserirsi di un luogo in un altro; se di questi intarsi di casa, di vento, di pozzo, di sentieri frementi e muti interni, di vive foglie e di morti muri, di raggi di sole e raggi di lampada, di cammino e di stasi, di immobilità e movimento, e soprattutto di un crescente dolore, di una tristezza senza requie, di una rabbia indicibile, mista a parole usuali, e anche della scomparsa della nostra Iguana, come di quei prodigi e quelle risa che hanno caratterizzato finora la nostra storia, sarai portato a chiedere spiegazione, rifletti, in attesa che possiamo dartene una (ammesso che vi sia una spiegazione a questo mondo di imperscrutabili fenomeni, dove tu anche vivi), rifletti, pensieroso Lettore,”

La malattia del pensare– “Volgi poi la ragione tranquilla, tu che sei salvo, alla tremenda verità dell’anima, ch’è qui, ovunque, e in nessun luogo, e ciò mentre un giovane corpo cammina, è avviato in una certa direzione, in un’altra, dove lo portano le nuove domande dell’animo suo. Ma che cos’è un corpo di fronte a ciò che lo conduce, e che quel corpo, quelle mani, quegli occhi hanno il semplice dovere di esprimere? E che cos’è il tempo, in cui tali atti e pensieri si dipanano? cos’è lo spazio, se non una ingenua convenzione? e un’isola, una città, il mondo stesso con le sue tumultuose capitali, che altro sono se non il teatro dove il cuore, colpito dai rimorsi, pone i suoi ardenti interrogativi? Così non meravigliarti, Lettore, se la malattia (così possiamo chiamare il pensiero), che da tempo minacciava il nostro conte, morto vivente nella sua classe, è esplosa nei modi tremendi che vedi, rivelando la sotterranea malinconia, la straziata esigenza del reale. Perciò del prato e il bosco, la sala e il pozzo, la tempesta e il sereno, le rapide nuvole d’aprile e la chiusura di novembre, che così si confondono alla fine della nostra storia, non indagare la causa, riconoscendo in essi, piuttosto, il risoluto cammino, e solo vero, dell’anima, tra le cose che hanno finto fin qua di essere lei, e con turbamento grande, e paura, la imitano.”

Processo per la morte di Dio-Farfalla– “Era, Lettore, se mai sei stato desideroso di conoscere le vere sembianze di colui del quale favoleggiamo da secoli, senza mai essere certi di averlo ravvisato, era, arrampicata e addormita su una foglia, una semplice farfalla bianca.” Ma quale grazia doveva aver avuto volando sui prati e i cespugli in fiore, prima della tremenda sua morte! Era un bruco debole e semplice, ma con pure ali che ancora, forse al respiro della intera aula, tremavano, in una parvenza di vita. Aveva antenne d’oro, e occhietti assai buoni, assai puri e tristi. Pensando che in un così semplice essere, e così debole, e ormai cancellato dalla vita, era il segreto, l’origine dello stesso immenso e allucinante universo, coi suoi splendori e i suoi doni, con tutte le cose che lui e gli altri nobili avevano avuto e goduto, il conte sentì quanto la sua uccisione fosse imperdonabile, e il lutto delle Costellazioni infinito.”

Quando la ragione cerca di definire la natura– “La ragione dovrebbe illuminare continuamente tutto, dovrebbe illuminare il disordine e il dolore. C’è molto dolore, nel mondo, ce n’è più che in tutti i tempi, perché l’irreale – il non-conosciuto – è assai più profondo. Mille ragioni – di stato o pratiche – vi si oppongono. Non per malvagità, ma perché a quelle condizioni – che mantengono il disordine, su cui cresce il dolore – sono legati innumerevoli interessi, anche di cultura, o vecchia cultura; quindi di autorità. Quando, per esempio, dai il mondo come spiegato – per così dire: naturale – ci edifichi sopra le cose degli uomini. Quando lo dai come inspiegabile, cioè innaturale, e lo definisci come visione del fuggevole – ci edifichi l’uomo. Non è una differenza da poco. Edificare l’uomo è gratuito. Edificare le cose (dell’uomo e sull’uomo), porta compensi molto alti, non solo economici. Ma perde l’uomo.”

Quando scrivere e leggere significa tornare a casa…– “Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive o legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando – per ragioni pratiche – è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera.”

Piero Citati parla dell’Iguana e della sua autrice– “Quando esce alla luce, ci appare come uno scrittore romantico, che sarebbe potuto nascere nella Germania o nell’Inghilterra o nella Spagna del 1820. Dello scrittore romantico, Anna Maria Ortese ha tutto: un ardore, un fuoco incontenibile, a cui la letteratura non sembra bastare: gli opposti abissi di tenebra e di eterea letizia: un lieve delirio, che sfuma le sensazioni; il dono di cogliere il reale e l’irreale appena si producono, e di fonderli nell’incantesimo di un unico sogno.”

L’isola– “Viaggiando col suo yacht nell’Atlantico, Aleardo giunge alla sconosciuta isola di Ocaña – che è l’isola della Tempesta, l’isola di Stevenson, il luogo dove approdiamo quando balziamo fuori dalla curva della realtà.”

Farfalle e Speranza– “Aleardo muore: è un sacrificio, non una redenzione: quindi la natura non è stata salvata, il male non è stato cancellato, nessuna parola di conforto scende dai cieli. Eppure il dolcissimo sorriso che allieta il volto di Aleardo ci assicura che il Dio-farfalla non è morto, che forse può rinascere in altre farfalle bianche, e che un soffio di quiete e di mitezza può alleviare le ferite e i gridi e gli orrori. Malgrado la limpidezza del suo nichilismo, nell’Ortese non muore mai la speranza che, da qualche parte, in qualche altra isola ancora sconosciuta, il Paradiso possa esistere.”