Attaccato al seno  materno, il neonato muore in Rooming-in nell’ ospedale romano. Storia già vissuta…Ma  era 50 anni fa!

nascita

1 Giugno 1973. Iniziano le doglie, sono al settimo mese. Decidiamo di andare immediatamente all’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Non è lì che è stato programmato il mio primo parto, ma la situazione richiede un intervento urgente. Mi ricoverano. Comincia l’incubo del travaglio che dura 24 ore, in una sala grande e giallastra, triste e spoglia, con l’ostetrica o l’infermiera, non ricordo, che ogni tanto si siede accanto al mio letto con il lavoro a maglia. Le ore passano lente e dolorosissime. Mio marito e  mia madre vengono tenuti quasi a forza fuori dalla stanza. Crudeltà inaudita. La sofferenza aumenta. Si fa buio e i dolori aumentano a dismisura. Li fa aumentare l’incertezza, la mancanza di sostegno della mano calda di tuo marito o l’abbraccio di tua madre che ti confortano, la paura di quello che ti aspetta il minuto dopo.

Finalmente arriva una compagna al duolo. E soprattutto il suo ginecologo, il dottor Cappa. Il mio è in vacanza, irreperibile. Il  dottore coglie al volo la serietà del caso e dà subito l’ordine di  portarmi in sala parto. Il nascituro si presenta in modo anomalo: ha una mano vicino alla testa. Scopriranno presto che sono due nascituri. Le visite periodiche non avevano segnalato una gravidanza gemellare. Non esisteva ecografia allora, ma solo un dispositivo che riproduceva il battito e quello “era un battito da leone”, diceva il dottore. Forse i due erano sovrapposti? Chi lo sa.

Finalmente tirano fuori due bimbe, con episiotomia per agevolarne l’uscita. Una cicatrice lunga e perenne. Sono le 22. 40 del 2 Giugno 1973. Segue un battesimo improvvisato alla ricerca di un secondo nome non previsto. La sensazione di liberazione è indescrivibile, esco dall’incubo doloroso e non voglio fare altro che dormire. La pesante palla d’acciaio che mi mettono sulla pancia mi procura un piacere indescrivibile che non dimenticherò mai. Non mi interessa il perché, so solo che tutto ora mi fa stare bene. La palla comprime un vuoto.

Nella sfortuna una fortuna: l’ospedale dispone di un reparto neonatale e le due bimbe vengono messe subito in incubatrice. Per due mesi non le vedo mai insieme. Solo una per volta, quando durante la giornata vado a portare il latte che mi tiro dal seno. Perché? Non lo so ed è inutile fare domande. Non c’è mai nessuna risposta soddisfacente. Ma il mio latte glielo avranno dato veramente? Non lo so ed è inutile fare domande. Siamo ancora in dimensione zombie fiduciosi nella medicina e nella sanità.

Passano  lunghi giorni di attesa e di tensione. Arriva una telefonata: sono convocata in ospedale. Sono sola. Mio marito è in missione fuori  città, mia sorella impegnata in questioni improrogabili e mia madre via, nella sua casa al paese. Mi accompagna Elena, la vicina di casa di mia sorella. Arriva un dottore che ricordo ancora: brusco nei modi, con uno sguardo  torvo e frettoloso: “non ce l’ha fatta, meglio così. Aveva avuto danni cerebrali e il futuro per lei e per voi sarebbe stato un inferno”. Elena mi abbraccia. Mi sento anestetizzata, come uno zombie. Ora il mio unico pensiero è concentrarmi sulla salvezza della piccola sopravvissuta e dimenticare il resto o meglio, rimuovere l’accaduto. La bimba torna a casa dopo i due mesi di completamento della “maturazione” e nell’arco di un anno recupera tutto, anche se i suoi occhi risentiranno sempre di un trattamento superficiale in quell’ “accecante”  limbo-incubatrice.

Questo accadeva 50 anni fa…

Questo accadeva 50 anni fa. Non c’era un Tribunale del Malato a cui rivolgersi (verrà istituito nel 1980) e non passava per la testa di nessuno l’idea di denunciare le inefficienze dell’ospedale. Ma oggi, con tutta la tecnologia disponibile, le conoscenze, le strutture, il personale formato, i medicinali più sofisticati, come è possibile che un neonato di tre giorni muoia soffocato accanto alla madre, mentre si nutre al suo seno, senza che nessuno se ne accorga? Senza pensare che una donna in quelle condizioni sia sfinita, sofferente e soprattutto sola dopo il lunghissimo travaglio, il parto, l’inizio dell’allattamento  e le inutili richieste di aiuto?

Sola sì, perché vuoi per il Covid, vuoi per la carenza  di personale, vuoi per comodità e ipocrisia anglofona da Rooming-in, la neo mamma viene lasciata sola al suo destino. Come 50 anni fa, ma questa volta senza la fortuna di un  dottor Cappa che arriva in soccorso e evita la catastrofe totale.